24 giugno 2017
Tutela di un marchio di fatto e presupposti della concorrenza sleale per appropriazione di pregi
La responsabilità per contraffazione di marchio di fatto di cui all’art. 20, commi 1 e 2 c.p.i. deve ritenersi integrata a seguito del persistente impiego da parte di terzi del segno e dei simboli, in preuso al titolare di fatto, per contraddistinguere i medesimi servizi, prestati nello stesso settore merceologico e in un ambito territoriale coincidente o estremamente contiguo.
Tali condotte provocano infatti tra i fruitori un serio rischio di confusione circa l’effettiva origine imprenditoriale delle attività.
Trova in tal caso applicazione l’inibitoria di cui all’art. 124 c.p.i., con divieto per i terzi a fare uso del marchio di fatto, sotto qualsiasi forma e con qualsiasi modalità, tra cui l’insegna, il nome a dominio o l’indirizzo e-mail.
Ai fini della configurabilità della fattispecie di concorrenza sleale per appropriazione di pregi ex art. 2598, n. 2, c.c. non è sufficiente l’adozione, sia pur parassitaria, di tecniche materiali o procedimenti già usati da altra impresa (che può dar luogo, invece, alla concorrenza sleale per imitazione servile), ma occorre che un imprenditore, in forme pubblicitarie od equivalenti, attribuisca ai propri prodotti od alla propria impresa pregi, quali ad esempio medaglie, riconoscimenti, indicazioni di qualità, requisiti, virtù, da essi non posseduti, ma appartenenti a prodotti od all’impresa di un concorrente, in modo da perturbare la libera scelta dei consumatori.
Non vi è appropriazione di pregi quando l’elemento preteso appropriato ha carattere meramente informativo e non costituisce un elemento di pregio caratterizzante i prodotti dell’impresa e la sua attività.