• proprietà intellettuale, tendenze e sviluppi

18 settembre 2017

La Metafora nei marchi e design: io sto con Aristotele

La «più luminosa e, perché più luminosa, più necessaria e più spessa» di tutti i tropi, la metafora, sfida ogni voce d’enciclopedia [Eco 1984].

Introduzione al tema

Spiegherò cosa si intende per metafora, ma intanto, tutti ne abbiamo, più o meno, una idea abbastanza chiara per permettermi di dire che risulta estranea al mondo del diritto. La regola, la norma, nella sua astrattezza, mal si concilia a prima vista con la flessibilità, la creatività e la fantasia che il concetto di metafora intuitivamente suggerisce. Nell’immaginario collettivo, come qualcuno ha detto, si pensa per lo più alla metafora come a una di quelle espressioni linguistiche che si ritrovano nelle poesie, più che nei testi scientifici.

Né il ricorso alla possibilità dell’interpretazione che viene offerta al giurista quando si tratta di applicare la norma sembra rappresentare uno spazio utile alla sua introduzione. Ne consegue, a conferma, un apprezzamento in quel contesto di taglio sostanzialmente negativo: non c’entra niente con il diritto, o, quanto meno non vi aggiunge nulla che sia utile alla sua corretta applicazione.

Navigando però tra la giurisprudenza anglosassone, mi è capitato più volte di incontrarmi nelle motivazioni delle sentenze con argomentazioni di tipo personale – al limite non privo di sense of humour nei giudici inglesi – e immagini lessicali molto libere, ma allo stesso assai efficaci nel discorso.

La prima tentazione è stata quindi di registrare ancora una volta la marcata differenza tra la common law, e la nostra giurisprudenza, decisamente ingessata nelle sue espressioni letterarie, legate ad uno schematismo rigido e un linguaggio strettamente tecnico giuridico.

Ma siccome i tempi cambiano e sono sempre stato fautore dell’approccio ‘why not’, come a dire,‘trasversale’ della Proprietà intellettuale, mi sono chiesto se la questione del rapporto nell’espressione giuridica tra parola e immagine, compresa quella semanticamente rappresentata dalla metafora, non meritasse un qualche approfondimento.

Ne sono così nate le riflessioni che vorrei sottoporre all’attenzione del giurista di Proprietà intellettuale, con particolare riferimento al marchio e al design. 

Premesse alcune considerazioni lessicali, tese a meglio capire di cosa stiamo parlando, ne faccio eseguire delle esemplificazioni tratte dalla giurisprudenza e dalla letteratura giuridica, per approdare alla conclusione che forse è arrivato il momento di legittimare l’ingresso di questo modo di esprimersi e comunicare nei giudizi di validità e confondibilità tra i segni che rinviano all’impressione dei pubblici di riferimento, in primo luogo il marchio e il design.

 

Metafora, Metonimia, Allegoria, Allusione e dintorni

Metafora, metonimia, sineddoche, allegoria e via dicendo: i linguisti ci andrebbero a nozze.

Resisterò invece alla tentazione di ricercare definizioni e alla seduzione delle più eleganti distinzioni, per concentrarmi sulla metafora, in senso lato, che mi pare un po’ la madre di tutte le sottocategorie che ne seguono.

Per metafora, infatti, intendo la figura della retorica tradizionale, basata su una similitudine sottintesa, ossia su un rapporto analogico, per cui un vocabolo o una locuzione sono usati per esprimere un concetto diverso da quello che normalmente esprimono. La metafora rappresenta sicuramente la più affascinante e la più diffusa delle figure della retorica. In generale, nell'uso tradizionale, essa viene considerata come la sostituzione o il trasferimento, di una parola con un'altra, il cui senso letterale ha una qualche somiglianza con il senso letterale della parola sostituita. Alla base di questo procedimento c'è un paragone, o come maliziosamente osservato da ECO, una menzogna.

Conferma VICO, che quella che chiama ingegnum "è quella facoltà che, peculiare ai filosofi, consiste nello scorgere simiglianze ideali in cose quanto mai lontane e diverse, ch’è come dire quella che di qualunque forma letteraria acuta e ornata". Però, per molti secoli nell’età moderna, la seconda parte dell’affermazione è prevalsa sulla prima. E’ successo infatti che tutto parte da ARISTOTELE, il cui insegnamento è stato per lungo tempo travisato attraverso una interpretazione ristretta del suo pensiero.

Cosa dice, infatti, ARISTOTELE? Che la metafora "possiede massimamente la chiarezza, la piacevolezza e l'essere fuori dal comune". La metafora è, dunque, "la migliore di tutte le figure retoriche in quanto nasce dall'abilità che si ha nel saper vedere e cogliere le somiglianze delle cose tra loro". 

Per chiarire e non spaventare più di troppo, la retorica di cui parlo è – secondo ARISTOTELE – l’arte del persuadere, e non dell’ornare, ai tempi in cui la retorica era un ars, una cosa seria, insomma, prima che degenerasse ai tempi nostri nella accezione irrimediabilmente negativa che tutti conosciamo. Naturalmente la persuasione non esaurisce tutte le funzioni che la metafora può assumere ai nostri giorni, ma è quella che prendo in considerazione nel contesto linguistico-comunicativo che è sotteso al marchio e al design.

Che ci sia stata un’interpretazione restrittiva del pensiero aristotelico, privilegiando la funzione dell’abbellimento del discorso lo conferma l’empirismo e HULME, che espelle la metafora dal mondo della ragione. Ci voleva poi un matematico, POINCARE’, per rimettere a posto le cose, nel riportare la creatività alla associazione tra enti anche lontani. Ai tempi nostri, la svolta della metafora verso il recupero dello strumento e metodo cognitivo è avvenuta attorno agli anni ‘80, grazie al contributo fondamentale di due signori linguisti (LAKOFF e JOHSON).

Da allora, la metafora, in parallelo con il travolgente sviluppo dei media, è diventata di gran moda e si è parlato persino di euforia iconica, iconic turn anche se qualcuno, criticamente ha fatto notare che l’odierna disponibilità e vorticosa circolazione delle immagini, lungi dal mostrarne la potenza, ne rivela forse addirittura la crescente vuotezza semantica e performativa.

Ma torniamo agli originari valori conoscitivi della metafora. Mi pare, infatti, che i termini persuadere e similitudine meritino attenzione, quando ci caliamo nella realtà della proprietà intellettuale. Entrambe le situazioni, infatti, premettono la possibilità/vocazione di passare dall’astratto al concreto, un processo che è particolarmente congeniale al giurista.

Come ho sempre cercato di ricordare nella tempesta perfetta delle dissertazioni giuridiche sul marchio, l’impresa non fa beneficienza, ma persegue l’obbiettivo chiarissimo di creare nel suo popolo di riferimento, i consumatori, quel consenso che li porterà a ripetere le loro scelte d’acquisto dei propri prodotti quando li riconoscerà attraverso il segno che li contraddistingue, il marchio. Sotto questo aspetto, la metafora, come arte del persuadere, mi pare rappresenti la modalità espressiva ideale per comunicare i messaggi convogliati dal marchio, in quanto la metafora nasce con quella connotazione di piacevolezza alla quale già ARISTOTELE (sempre lui) aveva ricondotto l’effetto di accrescere attenzione e memorizzazione. Marketing e pubblicità sono sempre più orientate, infatti, a sfruttare la capacità attrattiva, persuasiva e seduttiva della metafora, come possiamo facilmente constatare.

La similitudine, a sua volta, consiste nel confrontare due identità, in una delle quali si individuano proprietà somiglianti e paragonabili a quelle dell'altra. Mentre sorvolo per il momento sul problema di che cosa significhi l’identità di un marchio o di un design – su cui i giuristi continuano a dormire sonni profondi (cfr. Conoscere e riconoscere l’identità delle forme nella proprietà intellettuale, in Riv. Dir.ind., 2/2014, del sottoscritto) – non possiamo dimenticare che il paradigma della somiglianza costituisce il focus di ogni discussione quando si deve accertare l’esistenza o meno del rischio di confondibilità tra due forme, sia che si tratti del marchio che del design, nel quale ultimo la condizione della novità e del carattere individuale si converte nell’identità.

Ma non ci si può fermare qui. In entrambe le forme il punto di incidenza finale è rappresentato dall’impressione nel destinatario finale, con la sola differenza che nel marchio l’impressione è quella diretta del consumatore, mentre nel design quella impressione è mediata dal famoso utilizzatore informato che ancora non si è capito bene chi sia, ma che comunque se non è un consumatore qualificato e competente, poco ci manca.

Ma cos’è mai questa impressione?

L’espressione "impressione generale" o "impressione globale" è probabilmente quella più ricorrente nei giudizi di confondibilità tra marchi e nella valutazione della registrabilità del design. 

Eppure, curiosamente, si dà per scontato che tutti sappiano in cosa consiste e i giuristi si guardano bene dall’uscire dall’approssimazione.

Già l’aggettivazione ‘generale’ o ‘globale’ lascia perplessi: ha un senso qualificare, distinguere, specificare qualcosa che nasce e si muove come un ente strutturalmente unitario e indivisibile? L’impressione è o non è, a prescindere che incida sull’individuo o la collettività. La verità è che questa terminologia è stata introdotta nel linguaggio tecnico-giuridico della proprietà intellettuale per giustificare una antitesi tra analisi e sintesi che – a mio modo di vedere – non esiste, come dirò tra poco. Questo per la storia.

Ma torniamo all’impressione e alla metafora. Certamente s’intuisce che l’impressione è qualcosa che viene dopo la sensazione. Cito Treccani: "L’effetto, l’impronta ( chi non ricorda la famosa immagine di PLATONE e della sua tavoletta di cera su cui si imprime la nostra memoria) che la realtà esterna determina, col suo intervento diretto o indiretto, sulla coscienza; e quindi ogni forma di esperienza, conoscitiva o emotiva, in cui la coscienza appaia colpita dallo stimolo esterno, e presenti rispetto ad esso un atteggiamento di passività" (di passaggio, mi pare che parlare di passività nella coscienza del consumatore d’oggi sia un’affermazione che deve essere aggiornata).

Se mi è permessa, però, l’autocitazione, già nel mio Percepire il marchio, che risale ormai a dieci anni fa, così mi esprimevo: "l’impressione generale del recettore (di un segno) si esprime in un ordine tra le singole unità che lo compongono, anche secondo una gerarchia interna, che trae fondamento dall’organizzazione percettiva delle informazioni ricevute e dall’esperienza pregressa del ricettore, ciò che gli consente di memorizzarla orientando i suoi comportamenti futuri". Più semplicemente, volevo dire che quello che entra nella nostra testa è il frutto di una costante elaborazione e organizzazione degli input più diversi cui siamo assoggettati e che si va ad appoggiare e a sommare ai dati della nostra esperienza vissuta.

Dunque la metafora trova nell’impressione, nella sua propensione a persuadere l’ascoltatore, proprio il suo terreno più fertile, l’impressione, un terreno sul quale marchi e design si muovono quotidianamente, come ben sa, del resto, lo stesso legislatore.

Venendo alla similitudine, è evidente che essa implica la comparazione, anche quella per associazione. Incontriamo così questa paroletta che rientra addirittura come paradigma nella previsione normativa di ogni accertamento giuridico del rischio di confondibilità tra i segni, sin dai tempi della ormai mitica sentenza SABEL/PUMA e nella disciplina del design comunitario. E non c’è consulente o avvocato che quando deduce quella confondibilità manchi di aggiungere: "incluso il rischio per associazione". Però, se ci fate caso, nessun giurista si è mai dato la pena di spiegare in cosa consisterebbe questa famosa associazione, per una ragione molto semplice: l’associazione è un concetto che non appartiene al mondo del diritto, ma alle scienze della psicologia e della percezione.

Ora, non può non colpire il fatto che la metafora, per sua natura, lavora appunto per associazione. Tutto è sotteso, niente è dichiarato. Tutto è movimento, si trasferisce il senso di una parola a un’altra. Scrive Roland BARTHES, nella sua straordinaria analisi dell’opera di ARCIMBOLDO (per chi non lo ricordasse, pittore lombardo del ‘1500):

"Una conchiglia che sta per un orecchio: è una Metafora. Un ammasso di pesci sta per l’Acqua (dove vivono): è una Metonimia. Il Fuoco diventa una testa fiammeggiante: è un’Allegoria. Enumerare frutti, pesche, pere ciliegie, fragole, spighe per lasciare intendere l’Estate: è un’Allusione. Ripetere un pesce per farne qui un naso, là una bocca: è un’Antanaclasi (ripetizione di parola con senso mutato)".

Più volte sono ricorso nelle mie ricerche e scritti alla metafora di questo fa-volo-so – è il caso di dirlo – grande pittore per chiarire il senso dello standard giurisprudenziale, secondo cui "il confronto visivo, fonetico e concettuale deve essere condotta secondo un analisi che sia finalizzata all’accertamento conclusivo della confondibilità, o meno, tra i marchi in questione, dettata dall’impressione globale generata dalla percezione dei segni nel pubblico di riferimento". In altri termini, l’analisi deve risolversi nella sintesi che opera nell’impressione del consumatore, che non costituisce la sommatoria dei singoli componenti analizzati, ma si converte in un tutto che va oltre, così come la somma delle frutta e verdure nei quadri di ARCIMBOLDO, si converte nel ritratto di un personaggio perfettamente riconoscibile, l’imperatore Rodolfo II.

Ecco perché non c’è nessuna antitesi tra l’analisi e la sintesi, la prima essendo sempre rivolta e funzionale alla seconda.

Analogamente, nella metafora, il gioco associativo tra i diversi piani si scioglie nell’impressione di una suadente impressione. E come potrebbe negarsi la sua inerente compatibilità e coerenza con i paradigmi dell’accertamento giuridico tra identità e diversità, attorno al quale gira tutto il mondo della proprietà intellettuale?

Il nostro cervello, o forse sarebbe meglio dire, con GARDNER, uno dei sette cervelli che abbiamo, quello delegato appunto alle funzioni associative, è pronto a funzionare in tal senso, collegando, richiamando, allacciando i nodi della nostra rete, stesa sopra alle nostre impressioni ed esperienze.

Ma c’è di più, come le evidenze delle neuroscienze comprovano, a distanza di secoli dalle intuizioni dei più grandi pensatori.

E’ stato osservato, che fin dalle sue origini il pensiero occidentale, in tutte le sue forme (filosofica, retorica, letteraria, scientifica, psicologica), si è interrogato sulla natura della metafora, ma il valore cognitivo di questa figura retorica è stato spesso trascurato, come ricordato. Viceversa, va detto che la metafora è il meccanismo fondamentale non solo del linguaggio quotidiano, ma anche del nostro stesso funzionamento cognitivo. È praticamente impossibile parlare, e di conseguenza pensare (GALIMBERTI), senza fare ricorso a meccanismi metaforici, perché la metafora è lo strumento linguistico che meglio di qualunque altro esprime la nostra interazione corporea col mondo: "La maggior parte del nostro sistema concettuale è intrinsecamente metaforico" (LAKOFF e JOHNSON, di cui sopra).

Credo sia emerso da quanto sinora detto, che la portata cognitiva della metafora va ben oltre l’idea "di un ornamento del discorso ma (rappresenta) una strategia per mettere sotto gli occhi di tutti concetti altrimenti inesprimibili "(ECO).

E mi pare quanto meno singolare – a questo punto e dopo aver mostrato e dimostrato l’attinenza e pertinenza dell’approccio metaforico alla proprietà intellettuale in cui la natura comunicativa del marchio e design è indiscussa – riscontrare ancora la ritrosia e cautela con cui il giurista si avvicina a questa tecnica linguistica.

Così rivalutata la funzione della metafora nel contesto della proprietà intellettuale, le osservazioni che seguono confermeranno non solo quanto l’uso della metafora sia da tempo nota nel mondo del diritto, ma come la sua incidenza, nel positivo o nel negativo, possa assumere a volte un peso determinante nelle motivazione delle sentenze.

 

La metafora nella giurisprudenza: story-telling

Era il 1998 e le tre Commissioni di ricorso dell’UAMI erano da poco operative, quel tanto per capire che l’esperienza dei diritti nazionali sul marchio era scarsamente utilizzabile in quella che doveva rivelarsi la costruzione di un sistema normativo, quello comunitario, nuovo e diverso.

Ed ecco che una fantasiosa azienda olandese aveva pensato di chiedere la registrazione di un marchio olfattivo per palle da tennis, fornendo una descrizione meramente verbale. Si trattava dell’odore "dell’erba appena tagliata di fresco".

Era il primo caso che si presentava sui marchi non-convenzionali, un marchio olfattivo e, nell’affrontare il problema della rappresentazione grafica, la decisione della Seconda Commissione di ricorso (R 156/1998-2, 11 febbraio 1999) perveniva alla conclusione che la descrizione forniva informazioni sufficientemente chiare, tali da consentire a chi le leggeva di formarsi un'idea immediata ed inequivocabile in merito a che cosa fosse il marchio quando venisse utilizzato in relazione a palle da tennis. A motivazione, veniva succintamente e pragmaticamente dedotto dal mio amico estensore John F. GORMLEY (britannico doc) che "The smell of freshly cut grass is a distinct smell which everyone immediately recognises from experience. For many, the scent or fragrance of freshly cut grass reminds them of spring, or summer, manicured lawns or playing fields, or other such pleasant experiences" (§14).

L'odore dell'erba tagliata di fresco è un odore distinto che tutti per esperienza possono riconoscere immediatamente. La decisione non veniva impugnata e così è diventata una delle decisione più famose dell’Ufficio di Alicante, che doveva alimentare una lunga ed accesa discussione a livello internazionale.

Oggi, con la riforma introdotta nel 2017 sul marchio comunitario, che ha abolito la condizione della rappresentazione grafica, il problema della registrabilità dei marchi olfattivi sembrerebbe attenuato, ma persistono le resistenze, anche a livello delle Amministrazioni nazionali, alla sua registrazione – a mio modo di vedere – per l’instabilità insita nella natura dell’odore, o del profumo che dir si voglia (cfr. Identità e confondibilità delle forme nella proprietà intellettuale, 2013, del sottoscritto).

Questo, per la storia. Ma qui interessa il fatto che per la prima volta una metafora veniva elevata a motivazione esclusiva di una decisione sul marchio comunitario.

L’estensore riprendeva, infatti, l’immagine dell’erba tagliata di fresco, nonostante l’obiezione che nella percezione di un odore come quello nel caso di specie, la sua stabilità, poteva variare con il tempo e secondo l’ambiente circostante (e tralascio le argomentazioni al limite del ridicolo, come quelle che la percezione poteva mutare se sul prato fossero passate delle mucche che avessero lasciato tracce significative del loro passaggio).

A ben guardare, l’uso della metafora da parte del registrante (e della decisione), non era poi tanto peregrina. Non solo era sufficientemente precisa e riconoscibile semanticamente da tutti, ma poteva assicurare la trasmissione di un messaggio di gradevolezza, freschezza e genuinità ai consumatori/tennisti, anche se allora, come oggi, non si giocava solo sui campi d’erba, ma anche in terra battuta. In sintonia perfetta con la natura e la finalità della figura retorica che, ancora una volta, il genio di Stamira aveva modo di così dipingere: "possiede massimamente la chiarezza, la piacevolezza e l'essere fuori dal comune".

E’ verosimile dunque che si pensasse ad un uso del marchio nella pubblicità e nel marketing. Che poi si potesse costituire un diritto esclusivo su quell’odore come marchio, beh ... questa era un’altra storia.

Ma c’è un altro esempio di applicazione di una metafora, e questo al livello niente meno che della Corte di Giustizia. In un famoso caso (C-273/00, 8/11/2001, SIECKMANN) anche questa volta riguardante un marchio di profumo, l’Avv. Generale, Damaso-RUIZ COLOMER, nelle sue conclusioni, premetteva con vent’anni di anticipo, che "l'olfatto, per la sua particolare funzione nel sistema nervoso, è molto legato alle strutture limbiche che influiscono nella rievocazione dei ricordi e nelle emozioni. Come Marcel Proust ha appropriatamente rilevato sulla base delle ultime scoperte in campo neurofisiologico, i ricordi e le emozioni procedono parallelamente" (§ 38 e 39). Ricordava di conseguenza le pagine della Recherche, in cui PROUST evocava con struggente melanconia il profumo delle madaleine servite col the dalla zia (la descrizione si trova facilmente in INTERNET). L’argomento veniva portato a sostegno dell’ammissibilità in principio del profumo a costituire l’oggetto possibile di un marchio, meglio di tante disquisizioni giuridiche, e centrava in pieno il focus della struttura della metafora.

Venendo ai giorni nostri, due esempi mostrano come l’impiego dell’argomentazione metaforica possa entrare nella motivazione di una sentenza, aiutando, se non determinandone l’esito.

Nel primo, il design del monogramma di CHANEL

è stato così scopiazzato dal solito cinese di turno

Già a Commissione di ricorso dell’EUIPO aveva utilizzato rilevato la diversità tra le due forme, lo strumento della metafora dell’ellissi nel monogramma CHANEL e del segno dell’infinito (∞) nel design contestato, per negarne la somiglianza. Per la verità la somiglianza non pare evidentissima, ma qui non si trattava di marchi, ma di design, per cui tutta l’attenzione del giudicante (TUE, T-57/16, 18/07/2017) si è, giustamente, concentrata sull’impressione che questa forma poteva ingenerare nell’utilizzatore informato. Solo che, dopo aver ricordato i margini di libertà in cui di muove l’autore del design (qui però inesistenti), il Tribunale non è andato al di là dell’analisi meramente descrittiva e comparativa dei componenti dei due segni, rilevandone più gli aspetti simili che quelli dissimili: "anche se i due disegni presentano differenze nelle loro parti centrali, si deve constatare che l’impressione generale non è distinta, dal momento che le parti esterne, che determinano in modo considerevole il contorno e l’impressione generale suscitati dai disegni in conflitto, sono molto simili e quasi identiche. Inoltre, entrambe le parti centrali, anche se presentano alcune differenze, sono composte da forme ovali simili che si dissolvono nell’immagine globale dei disegni. In particolare, la parte centrale del disegno contestato è composta da due ellissi simili all’unico ellisse osservato nel monogramma Chanel" (§53).

Questa analisi, emblematica di un certo modo di procedere dei Tribunali, però nulla ci dice su come l’impressione globale si sia formata e si differenzi. Forse non si può neanche pretendere troppo, ma il punto di partenza era esatto, quando la sentenza dichiarava che la forma contestata "poteva essere percepita, o, in una certa misura, come creazione ispirata dall’idea del monogramma Chanel". Ora, la forma contestata non rappresenta certo un monogramma e di segni in cui due lettere sono interconnesse ce ne sono molte, proprio nel segmento dell’abbigliamento, ma ricorrendo alla metafora di due anelli di una catena congiunti, che si possono identificare, seppure con una qualche difficoltà, anche nella forma contestata, forse si sarebbe potuto dare maggior peso e sostanza alla ricercata identità dell’impressione globale, che riferita unicamente all’idea del monogramma, mi sembra regga poco. Meglio, a questo punto, mi pare la differenziazione metaforica tra la rappresentazione dell’ellissi e quella del simbolo matematico rilevata dalla decisione EUIPO impugnata.

Nel secondo caso – anch’esso molto recente e per certi versi analogo a quello appena riportato – si trattava di accertare la confondibiltà tra questi due marchi nel settore dell’abbigliamento:

L’UIBM ( decisione non ancora pubblicata), nel rigettare l’opposizione per confondibiltà, non ha affatto seguito le certosine analisi fatte dalle parti sulle linee, rette, curve, orizzontali o verticali, combinate o meno tra loro, analisi che lasciavano del tutta aperta la questione di fondo, vale a dire l’impressione di sintesi del pubblico considerato.

Nella decisione, il ricorso alla metafora è apparso lo strumento cognitivo più appropriato, anzi in questo caso necessitato, per identificare e chiarire l’essenza dei due segni a confronto, e marcarne quindi le differenze. Si legge, infatti, nella decisione: "In sostanza e per metafora, i segni dell’opponente esprimono l’idea di un sigillo, fortemente inciso nello spazio, in cui i suoi componenti si confrontano nella tensione dinamica di un netto contrasto, Nel segno contestato, viceversa, una vela si specchia in una situazione statica di calma piatta e nebbiosa. Le impressioni non potrebbero essere più diverse." (§21), con chiara allusione alla metafora degli specchi, già indagata da Umberto ECO.

A livello della giurisprudenza nazionale, infine, mi piace ricordare la recente sentenza del Tribunale di Venezia, confermata in appello, che a proposito del marchio tridimensionale della forma di questa borsetta, destinata ad accogliere del vino

ha motivato – riprendendo un articolo del Il Sole 24ore – che "quando l’abito…fa il monaco. E’ la metafora forse più appropriata per spiegare il clamoroso successo delle vendite di un blend Cabernet Sauvignon proposto da un importatore svedese …". (per un esteso commento, Alessia RIZZOLI, Il vino in borsetta: il valore sostanziale del marchio 3-D, in www.Marchiebrevetti.it, settembre 2017).

Si trattava nella fattispecie di risolvere se ricorresse o meno l’impedimento nel marchio tridimensionale del, controverso, valore sostanziale dell’aspetto del prodotto rappresentato, qui una attraente borsetta per versarci dentro il vino che il titolare del marchio voleva vendere. Il caso, complicatissimo ha portato il Tribunale a una soluzione positiva (ritenendo determinante nel comportamento del consumatore l’aspetto del contenitore), e mi pare che la metafora e l’ossimoro che ‘l’abito ... fa il monaco’ ci stia benissimo e che nella sua lapidaria sintesi dica molto di più di ogni argomentazione di stretto diritto. Se poi vogliamo essere più scientifici, quella espressione non fa che tradurre letterariamente quella che costituisce una c.d. metafora ontologica, quella situazione cioè in cui la trasposizione è direttamente, fisicamente, ancorata (embodied) all’esperienza percettiva e motoria, come nel caso del dentro e fuori, del contenitore e del contenuto.

La metafora può avere diversi significati, ma anche se ho scelto quello dello strumento linguistico di eccellenza nella comunicazione, questo non vuol dire che a volte esitiamo su quale interpretazione darle, pur non avendo alcun dubbio sul fatto che ci troviamo di fronte ad una metafora. Il fatto è che ogni metafora va contestualizzata, come ogni discorso.

Cogliere allora il senso della creatività e dei risultati che essa produce, ai quali appartengono le forme del marchio e del design, opere appunto della proprietà intellettuale, significa comprendere la metafora che in essi è sempre presente.

Questa breve rassegna ci insegna che, contrariamente a quanto si crede, l’adozione della metafora come strumento cognitivo è già presente significativamente, e da tempo, nella giurisprudenza sul marchio e sul design.

 

Una riflessione propositiva

Dalle considerazioni fin qui svolte appare chiaro che il rapporto tra l’impresa e i suoi ascoltatori si configura in termini di un dialogo continuo e necessariamente reciproco che nella ‘Click-community’ assume sempre più carattere paritetico, o che forse vede nel caso della proprietà intellettuale quel rapporto rovesciato; è l’impresa, infatti, che oggi sembra inseguire il consumatore nella sua volatilità e transitorietà, piuttosto che vederlo come soggetto acquiescente delle sue proposte/proposizioni.

Insomma, si tratta pur sempre di un problema di linguaggio che interessa come il marchio e il design vengono percepiti dai pubblici di riferimento. Due titoli che hanno in comune il rinvio all’impressione con cui quei pubblici li percepiscono.

Ma allora come si può prescindere da come quell’impressione si forma? Siamo sicuri che alla sua formazione non concorrano tutte le stimolazioni che provengono dal mondo esterno? Non mi sembra che la limitazione al solo lessico verbale sia credibile.

Mi pare invece che quel linguaggio richieda oggi nuove ‘parole’ e che debba essere attualizzato. In questo senso, gli esempi che ho riportato dimostrano in modo incontrovertibile che il ricorso alla metafora non solo è di aiuto nello spiegare al giurista situazioni e comportamenti di immediato interesse nell’affrontare problemi fondamentali che marchi e design frequentemente sollevano, ma addirittura si rivela in alcuni casi indispensabile per la risoluzione di quei problemi.

Affrancata dai limiti ristretti della didattica, la metafora è in cerca della legittimazione giuridica all’ingresso e al completamento dell’iter motivazionale delle decisioni. 


 
Stefano Sandri

© 1 settembre 2017

 

Bibliografia

  • RIZZOLI A.Il vino in borsetta: il valore sostanziale del marchio 3-D, in www.Marchiebrevetti.it, settembre 2017
  • SANDRI S., Conoscere e riconoscere l’identità delle forme nella proprietà intellettuale, in Riv. Dir.ind., 2/2014
  • SANDRI S., Identità e confondibilità delle forme nella proprietà intellettuale, 2013

 

Giurisprudenza

  • Corte di Giustizia - sentenza 8 novembre 2001 (C-273/00), SIECKMANN
  • Corte di Giustizia - sentenza 11 novembre 1997 (causa C-251/95), SABEL/PUMA
  • Tribunale UE - sentenza 18 luglio 2017, T-57/16
  • EUIPO - decisione 18 novembre 2015 (R 2346/2014‑3)
  • EUIPO - decisione 11 febbraio 1999 (R 156/1998-2) 
  • ​​Corte d'appello - sentenza 9 giugno 2017, n. 1230
  • Tribunale di Venezia - sentenza 21 luglio 2015, n. 2306