• Farmaceutici e fitosanitari

23 ottobre 2017

Uso e interpretazione dei brevetti nell’evoluzione della giurisprudenza EUCJ in materia di certificati complementari di protezione

CESARE GALLI
Tra un anno si aggiungerà ai marchi europei già esistenti una nuova tipologia di marchio.
Infatti, tra le nuove norme introdotte con il regolamento comunitario lo scorso marzo, ve ne è una, che entrerà in vigore tra poco meno di un anno (1 ottobre 2017), che prevede il così detto "marchio di certificazione".

Si tratta di un marchio che potrà registrare ogni soggetto che si prefigga come scopo quello di certificare prodotti o servizi. Si deve tuttavia trattare di un soggetto che non commercializzi direttamente gli stessi, ma si limiti ad appurare che il marchio sia apposto solamente su prodotti o servizi che soddisfino certi standard dettati, a seconda dei casi, dal materiale, dal procedimento di fabbricazione, dalla qualità, dalla precisione o da altre caratteristiche.

Le qualità che il marchio di certificazione deve garantire devono essere esplicitate nel regolamento d’uso, che dovrà accompagnare la domanda di registrazione.

Per coordinare questa nuova tipologia di marchio con il "marchio collettivo", il legislatore europeo ha previsto che, tra le caratteristiche che il "marchio di certificazione" potrà garantire, non vi è la provenienza geografica del prodotto o servizio.
È previsto inoltre che, non solo il depositante deve essere un soggetto che non commerci direttamente i prodotti o servizi contraddistinti, ma che tale caratteristica debba averla ogni eventuale successivo soggetto che volesse divenire titolare del marchio stesso a seguito di trasferimento.

In ragione del fatto che non è detto che tutte le legislazioni nazionali europee contemplino un istituto simile (per esempio, ad oggi, il "marchio di certificazione" non è previsto nella legislazione nazionale italiana), il regolamento prevede che la trasformazione di un marchio di certificazione, non potrà avvenire in quegli Stati europei che, tra le loro norme, non prevedono una figura equivalente.

L’intento del legislatore europeo è evidente: creare un marchio che possa essere atto a valorizzare caratteristiche di un prodotto o servizio che non derivino necessariamente dall’ubicazione geografica. Potrebbe essere il caso di prodotti realizzati con un materiale peculiare o sviluppati con un particolare procedimento o con specifica precisione. Per la valorizzazione di queste il legislatore stesso ha pensato ad un ente che si ponga al di sopra delle persone, fisiche o giuridiche, che possono concretamente utilizzare il marchio stesso, affinché costui svolga una suprema funzione di garanzia delle qualità promesse. - See more at: http://www.bugnion.it/marchi_det.php?m=Contributi&id=558&session_menu=Marchi,%20disegni%20e%20modelli#sthash.L8Ku5wB4.dpuf

La Corte di Giustizia europea si è pronunciata molte volte sull’ambito di protezione e più ancora sui requisiti per la valida concessione dei certificati protettivi complementari (SPC) per i medicinali, in sede di interpretazione pregiudiziale del relativo Regolamento comunitario. Anche se spesso le decisioni rese tradiscono la scarsa dimestichezza della Corte con il diritto dei brevetti, il fil rouge di questa giurisprudenza è dato dalla ricerca di un punto di equilibrio tra esclusiva e concorrenza fondato sulla considerazione della funzione economica che gli SPC (e le correlative regole sui farmaci generici) svolgono sul mercato, conformemente all’approccio “realistico” e fenomenologico (e implicitamente giusnaturalistico) che caratterizza in generale l’attitudine del diritto dell’Unione Europea nei confronti dei diritti di proprietà intellettuale.

Nella prospettiva seguita dai Giudici comunitari hanno assunto rilievo decisivo, da un lato, la considerazione della ratio dell’istituto del certificato complementare di protezione, il cui obiettivo, come la Corte ha dichiarato con estrema chiarezza già nella sua decisione nel caso Actavis “non è quello di compensare integralmente i ritardi accumulati nella commercializzazione dell’invenzione né di compensare tali ritardi con riferimento a tutte le forme di commercializzazione possibili di detta invenzione, tra cui la forma di composizioni declinate a partire dal medesimo principio attivo”, ma è solo quello di “compensare il ritardo accumulato nella commercializzazione di ciò che costituisce il cuore dell’attività inventiva del brevetto di base”; e dall’altro lato l’interpretazione del brevetto di base, che è necessaria per stabilire quando un certificato può essere rilasciato sula base di esso e in relazione alla quale i Giudici comunitari giustamente sottolineano il “ruolo essenziale delle rivendicazioni per stabilire se un prodotto sia protetto da un brevetto di base ai sensi di tale disposizione”, precisando che quindi “sulla base di tali rivendicazioni, interpretate in particolare alla luce della descrizione dell’invenzione, come prevedono l’articolo 69 della CBE e il protocollo relativo all’interpretazione di tale articolo, sia possibile concludere che tali rivendicazioni si riferivano, implicitamente ma necessariamente, e in maniera specifica, al principio attivo di cui trattasi, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare” (così la sentenza nel caso Eli Lilly).    

In questa prospettiva si incontrano e si completano tra loro le conclusioni raggiunte dalla giurisprudenza comunitaria a proposito del divieto di prolungare la protezione attraverso la concessione in successione di più SPC con scadenze diverse per lo stesso principio attivo (principio che vale a fortiori per il tentativo di ottenere il rilascio di un SPC per un farmaco che non è il primo tutelato dal brevetto ad essere stato commercializzato nell’Unione Europea, in quanto se per il primo farmaco non sussisteva il ritardo che gli SPC sono chiamai a compensare, il ricorso a questo istituto è necessariamente escluso) e quelle cui è pervenuta la giurisprudenza della stessa Corte di Giustizia europea nel definire quando ci si trova di fronte a un principio attivo “protetto da un brevetto di base in vigore” e nell’individuare l’ambito di protezione del certificato complementare una volta validamente concesso.

Il certificato supplementare di protezione che venga chiesto per un principio attivo protegge infatti in ogni caso, ai sensi dell’art. 4 del Reg. C.E. n. 469/2009, tale principio attivo non solo in relazione al medicinale oggetto dell’autorizzazione corrispondente, ma più in generale “nei limiti della protezione del brevetto di base … per qualsiasi impiego del prodotto in quanto medicinale, che sia autorizzato prima della scadenza del certificato”, e quindi anche per l’uso nell’ambito di medicinali ulteriori, eventualmente anche per curare malattie diverse, ovvero uniti in legame covalente con diverse sostanze, con l’ovvio corollario che, alla scadenza di tale SPC, l’uso del principio attivo in questione dovrà essere libero per i terzi per “qualsiasi medicinale contenente detto principio attivo in composizione con un altro principio attivo” (come ha chiarito la Corte di Giustizia europea sempre nella sua sentenza nel caso Actavis ). È anzi degno di nota che una situazione analoga sussisteva anche nel precedente caso Massachusetts Institute of Technology), in cui era stato rilasciato un SPC per il principio attivo Carmustina in relazione a un farmaco nel quale essa era combinata a determinate sostanze in modo da ottenerne il rilascio con una determinata modalità, e la Corte ha chiarito che non poteva essere concesso un secondo SPC per una composizione della Carmustina con altre sostanze tale da “rende(re) possibile una forma farmaceutica del medicinale che comporta una mutata efficacia di tale medicinale”, forma che doveva ritenersi coperta già dal primo (e unico) SPC.

Anche la più recente decisione dei Giudici europei su questo tema, e cioè quella resa nel caso Forsgren ha quindi solo aggiunto un altro tassello a questa ricostruzione, rendendo evidente come anche il fatto che gli ingredienti del medicinale non siano solo in combinazione, ma fra loro in legame covalente non modifica l’inquadramento della fattispecie, perché ciò che conta per la concessione del certificato è che il principio attivo presente nel medicinale sia coperto dal brevetto, dato che la protezione che tale certificato assicura è una protezione in tutto simile a quella brevettuale e quindi riguarda anche ogni altro medicinale e ogni altro uso come medicina di tale principio attivo, da solo o in combinazione o in un legame che formi una nuova sostanza nella quale tuttavia sia ancora tale principio a svolgere un’efficacia terapeutica: cosicché tale sentenza, letta insieme a quella resa nel caso MIT sulla Carmustina e a quella nel caso Georgetown, chiude perfettamente il cerchio, fornendo una soluzione che - sia pure raggiunta per progressive approssimazioni, anche in relazione alle difficoltà di comprensione della materia brevettuale da parte della Corte europea, che non è un Giudice specializzato in questo campo, ciò di cui si deve necessariamente tener conto anche nella trasposizione dei principî che essa enuncia alla soluzione dei casi concreti - appare coerente con il complessivo equilibrio tra protezione dell’innovazione e difesa della concorrenza che sta alla base del diritto comunitario della proprietà intellettuale, e in definitiva anche alla valorizzazione e alla tutela di tutto e solo ciò che questa tutela effettivamente merita sul mercato.

 

Il testo è l'abstract della relazione tenuta dal Prof. Galli al seminario sui brevetti farmaceutici del 19 ottobre u.s. svoltosi a Roma presso la sede dell'UIBM.

 


 © 2017 - Avv. Cesare Galli
Prof. Ord. di Diritto Industriale, Università di Parma – Studio IP Law Galli, Milano
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