• Marchi patronimici

5 settembre 2016

L’ultima decisione della Corte Suprema sulla saga dei Fiorucci

La Corte Suprema ha recentemente emanato l'ultima sentenza (n. 10826 del 25/05/2016) relativa al contenzioso tra il famoso stilista Elio Fiorucci, venuto a mancare lo scorso anno, e l'omonima società da lui fondata.

Fatti

La questione è stata precedentemente esaminata dal Tribunale UE il 14 maggio 2009, T-165/06 e dalla Corte di Giustizia Europea (CGE) il 5 luglio 2011, C-263/09. Tutte e due le sentenze sono state criticate dai commentatori italiani in quanto esse:

  • Si basavano esclusivamente sulla legge italiana mentre la questione riguardava un marchio Comunitario; e
  • Avevano disatteso il significato del CPI. Le Corti europee sostenevano che l’articolo 8 del CPI – che concede al proprietario di un nome notorio di vietare ad altri l’utilizzo o il tentativo di registrare quel nome come marchio, senza la propria autorizzazione – si applica anche nel caso in cui la notorietà di quel nome è il risultato di attività commerciali (come per Fiorucci), che secondo la legge italiana può dare origine a diritti esclusivi sulla base del marchio di fatto che segue le regole generali per specifici marchi.

Le due sentenze hanno rovesciato il giudizio dell’UAMI (ora EUIPO) del 6 aprile 2006, R 238/2005-1, che sosteneva che l’articolo intende proteggere le potenziali opportunità commerciali che possono realizzarsi attraverso un nome famoso. Secondo la decisione, se le opportunità hanno già avuto luogo – per cui il nome è percepito dal pubblico come un marchio commerciale – la tutela prevista dall’articolo 8 non ha validità. Questo è il caso in cui il nome di una persona, anche famosa, è percepito dal pubblico come un marchio.

La Corte Suprema non ha considerato questo aspetto, ma piuttosto i diritti dello stilista di registrare il proprio nome come un marchio dopo aver lasciato la società che aveva precedentemente registrato lo stesso nome come marchio con il suo consenso. Il marchio depositato dallo stilista perciò era in conflitto con il marchio di cui è proprietaria la società. Nel valutare il caso, la decisione della Corte Suprema, era più vicina all'UAMI (ora EUIPO) che alle Corti Europee, anche se le argomentazioni della Corte Suprema sono criticabili. La sentenza della Corte Suprema ha deciso a favore della società Fiorucci – che era proprietaria del marchio FIORUCCI – e contro il marchio LOVE THERAPY BY ELIO FIORUCCI, i cui diritti lo stilista aveva concesso a una diversa società dopo aver lasciato Fiorucci invocando i diritti concessi dall’articolo 21 del CPI di usare il nome e l’indirizzo di una persona per intraprendere un’attività, anche quando quel nome è uguale al marchio di terzi.

Decisione

Allontanandosi dal giudizio della Corte d’Appello di Milano, la Corte Suprema ritenne che LOVE THERAPY BY ELIO FIOURUCCI non adempiva le condizioni richieste per l’applicazione dell’eccezione prevista dall’articolo 21 – ovvero, che l’utilizzo del nome deve costituire un uso leale. Quindi la Corte Suprema ha rimandato la decisione sui meriti del caso alla Corte d’Appello di Milano.

Secondo la Corte Suprema il requisito di uso leale si attua soltanto quando il nome è utilizzato per “reale necessità di descrivere l'attività, prodotti o servizi” della persona medesima che vuole avvalersi dell’eccezione prevista nell'articolo 21 – non invece quando il precedente marchio è forte e quando la sua reputazione è legata a quella della persona richiedente i diritti dell'uso del proprio nome.

Per la Corte Suprema, l'articolo 21 prevede che l'uso riguardi una attività specifica condotta direttamente dalla persona medesima richiedente l'uso del nome; nel caso in questione il marchio era stato usato in relazione ad un'attività di “coordinamento del lavoro di altri, commercializzazione di beni di altre società in un'ampia varietà di settori, attività di vendita, cooperazioni con altri marchi e cooperazioni commerciali” per cui non avrebbe potuto adempiere alle dette condizioni.

Queste conclusioni inoltre sono il risultato di una incomprensione concernente la distinzione tra uso descrittivo (che è legale) e uso distintivo (che è sempre illegale) che era incluso nella prima versione della legislazione italiana che aveva implementato l'articolo 6 della Direttiva Marchi (89/104/CE). Comunque questa distinzione non è più inclusa nell'articolo 21 del CPI, che ha eliminato le specifiche contenute nell'Articolo 1/bis della vecchia legge sui marchi. Per costituire uso leale, un simbolo deve essere utilizzato “non come marchio ma secondo la finalità descrittiva”.

La decisione della Corte Suprema assume che le vecchie e le nuove definizioni sono identiche nel senso che soltanto l'uso descrittivo può essere considerato legale. Invece, è chiaro dalla decisione delle corti Europee che l'uso leale deve essere inteso in conformità con le prerogative conferite dalla legge sul marchio.

Quindi, per accertarsi che sia uso leale, è necessario “fornire una completa documentazione di tutte le circostanze rilevanti”, incluso il contesto dove il marchio è usato (vedi ad esempio la decisione della Corte di Giustizia UE del 7 gennaio 2004, C-100/02, in cui si sosteneva che doveva essere presa in considerazione “la forma e la scritta” del prodotto sul quale il marchio veniva usato).

Inoltre, la Corte Suprema ha fatto una distinzione tra:

  • uso del nome dello stilista per indicare l'origine del prodotto sul quale veniva usato (in particolare, preceduto dal termine “licenza di”); e
  • uso del nome come marchio.

Questa distinzione non ha fondamento; non tiene conto che nel mondo della moda e del design lo scopo più importante dato dal marchio è di informare il consumatore che lo stilista ha creato quei prodotti o che ne ha coordinato lo stile. In altre parole, il riconoscimento delle corti Europee del marchio quale veicolo di comunicazione che riflette il ruolo che svolge sul mercato implica che questa funzione dovrebbe essere considerata allo stesso modo delle altre funzioni del marchio, per il quale è tutelato dalla legge. 

Da una parte, ciò significa che tale uso può dare luogo alla tutela dei diritti per un marchio non registrato in favore di un soggetto il cui uso del marchio lo ha reso famoso quale marchio distintivo. Dall'altra parte, questo significa anche che tale uso può interferire con un precedente marchio di cui è proprietario un soggetto terzo, in quanto l'eccezione prevista dall'articolo 21 non avrà applicazione se l'uso del marchio contenente il nome della persona famosa non costituisce uso leale, in particolare se genera un rischio di confusione nel pubblico o ad uno sfruttamento improprio del messaggio apportato dal precedente marchio.

Commento

La Corte Suprema sembra aver recepito che l’eccezione di cui all’articolo 21 sia valida solo per uso leale, ma poi sembra aver ignorato questo aspetto e si sia concentrata invece sulla (presunta) necessità di finalità descrittiva legata all’attività della persona stessa. A questo proposito, la decisione della Corte Suprema n. 4405 del 28 febbraio 2006 è preferibile rispetto a quella esposta, in quanto dice che:

“in una ditta patronimica l’uso del nome di famiglia che coincide con un marchio precedente di proprietà di altri è consentito soltanto quando soddisfa i requisiti di lealtà e quindi soltanto se è utilizzato con altri elementi che evitino di generare un rischio di confusione o associazione”

Invece, il Giudicante non si è interrogato sull’aspetto riguardante marchi relativi a persone famose (come non era stato portato all’attenzione dalle parti), ovvero alla loro potenziale fraudolenza quando non esiste più una ulteriore relazione tra la persona e la proprietà del marchio. Nella sua prima decisione, la Corte Europea di Giustizia) sembra sostenere che la frode è rilevante solo quando riguarda le caratteristiche materiali del prodotto (vedi Corte Giustizia UE 30 marzo 2006, C-259/04, Elizabeth Emanuel).

Però, questa conclusione è stata criticata, specialmente da studiosi italiani, perché le caratteristiche materiali devono essere considerate caratteristiche “intangibili”, ovvero lo stile dello stilista e la coerenza con il proprio stile, che sono le più rilevanti per i consumatori di articoli di moda. In questo caso, secondo quanto previsto in merito dalla legge italiana, un proprietario di diritti che voglia prevenire ogni rischio di frode (e perciò la possibile perdita del proprio marchio) dovrebbe “spiegare attraverso una specifica comunicazione commerciale la rottura con il passato”, cioè, informare il mercato che non c’è più alcuna relazione tra lo stilista e la proprietà del marchio) [1]. Ciò naturalmente darebbe allo stilista più ampie opportunità dell’uso del proprio nome – anche nel contesto di un nuovo marchio – con l’intento di evidenziare l’esistenza di tale relazione tra sé stesso e il proprietario del nuovo marchio.

La Corte Suprema ha mancato, dunque, l’opportunità di fare luce su un’importante questione, specialmente nel mondo dei beni di lusso. È stato perciò lasciato alla Corte di Appello a cui il caso è stato rimandato il compito di determinare un equilibrio tra le due diverse esigenze che con l’articolo 21 si cerca di riconciliare.

 


[1] Vedi per esempio Corte di Milano, 16 aprile 2012, il caso del marchio che corrisponde al nome del creatore di moda Massimo Piombo.

 


 © 2016 - Prof. Avv. Cesare Galli
Fonte: ILO (International Law Office)