7 ottobre 2016
#Cancell(ett)i chiusi alle Olimpiadi. Il Comitato Olimpico USA intima ai non-sponsor di non utilizzare #Rio2016
Durante le recenti Olimpiadi in Brasile il Comitato olimpico degli Stati Uniti (USOC, United States Olympic Committee), titolare in USA del marchio “Rio2016”, così come di numerosi altri marchi legati ai giochi olimpici (tra cui “Go for the gold”, “Paralympic” e “Team Usa”), ha intimato ad alcune società che avevano utilizzato senza autorizzazione l’hashtag Rio2016 sui propri social network aziendali (ad es. Facebook, Twitter, Instagram, ecc.) di interromperne immediatamente l’uso.
Secondo il Comitato americano, infatti, la riproduzione dell’hashtag Rio2016 (così come, più in generale, di qualsiasi altro hashtag legato ai marchi della manifestazione), sui siti internet e sugli account da parte di aziende non legate all’evento, costituirebbe una violazione dei propri diritti sui marchi registrati, in quanto indurrebbe il pubblico a ritenere l’azienda collegata alle Olimpiadi di Rio e/o al Comitato stesso, beneficiando di un ritorno di immagine legato alla manifestazione senza il pagamento di alcun corrispettivo (fenomeno illecito denominato “ambush marketing”). Per il Comitato l’uso di hashtag legati alle Olimpiadi sarebbe lecito, quindi, solo se riprodotto su profili non aziendali, ovvero legati a singoli individui, oltre che ovviamente da parte delle società sponsor dell’evento o comunque autorizzate.
Analoga posizione è stata assunta, in Europa, dalla Federazione Sportiva e Olimpica Tedesca (DOSB, Deutsche Olympische Sportbund), che nelle proprie linee guida ha ribadito che le società che non sono sponsor delle Olimpiadi non posso usare in nessun caso il segno “Rio2016” come hashtag.
L’invio delle lettere di diffida e, più in generale, l’impostazione assunta dall’USOC, ha sollevato - e non solo in America - critiche e perplessità.
Le disciplina dei marchi, in modo sostanzialmente uniforme nella maggior parte dei paesi comunitari e aderenti alle convenzioni e i trattati internazionali, riserva infatti al titolare del marchio la facoltà di vietare a terzi l’uso di un segno identico o simile se usato nel commercio e in relazione prodotti o servizi simili a quelli contraddistinti dal marchio anteriore (così, ad esempio, a livello comunitario, l’art. 9 del Regolamento CE 2015/2424).
L’uso di un segno distintivo per finalità non legate ad attività commerciali, invece, è lecito se ed in quanto non lede la funzione distintiva (o di provenienza) propria dei marchi; un divieto indiscriminato comporterebbe infatti un’illecita estensione delle prerogative già riconosciute al titolare.
Qualora la riproduzione o citazione di un marchio altrui avviene da parte di un concorrente o di altro imprenditore, il titolare del marchio ha evidentemente interesse a che tale uso avvenga nei limiti di legge, in particolare qualora il marchio citato sia un marchio noto. Non sono rari usi che possono configurarsi, a seconda delle modalità e il contesto nel quale vengono posti in essere, leciti ovvero illeciti - ne è un esempio l’utilizzo dell’hashtag Rio2016 sui social media da parte di vari imprenditori per augurare buona fortuna agli atleti o per complimentarsi di un risultato ottenuto.
L’abitudine a utilizzare all’interno di un hashtag nomi e marchi di terzi è un fenomeno ormai ampiamento diffuso sui social media da parte degli utenti e risponde alla funzione primaria dello stesso, che è quella di aggregatore tematico e di strumento volto a rendere più facile per gli utenti trovare messaggi su di un tema o contenuto specifico. Con riferimento all’utilizzo di tale prassi da parte degli imprenditori e quindi l’uso all’interno dell’hashtag di segni di terzi, in mancanza di disposizioni specifiche, la giurisprudenza, almeno negli USA dove vi sono state le prime pronunce su questo tag, non è univoca. Mentre alcune corti hanno considerato tale uso lecito in quanto hashtag “merely facilitate categorization and searchin within online social media” (cfr. Ekouzian v. Albanese), altre corti ne hanno invece vietato l’uso da parte di aziende che hanno posto “#” accanto al marchio del concorrente (cfr. Public Impact Llc v. Boston Consulting Group Inc.).
In Italia e in molti paesi europei, l’uso dell’hashtag accanto ad un marchio del concorrente, se adottato da un imprenditore per richiamare gli utenti e quindi facendone un uso assimilabile al c.d. “keyword advertising”, costituirebbe una violazione delle funzioni del marchio citato, secondo quanto già statuito dalla Corte europea di Giustizia in alcune note sentenze (Google France SARL e Google Inc. v. Louis Vuitton Malletier SA a altri).