• Marchi patronimici

9 gennaio 2023

La tutela del patronimico e le limitazioni del diritto di marchio

Con una recente ordinanza la Suprema Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sull’uso del marchio patronimico e sui diritti conferiti dalla registrazione del marchio ai sensi dell’art. 20 c.p.i..


La pronuncia ha ad oggetto un contenzioso di lunga durata riguardante l’utilizzazione da parte dei convenuti della nota storia della famiglia Hausbrandt al fine di accreditarsi sul mercato come coloro che proseguono l'attività commerciale iniziata nel 1892 dal comandante Hermann Ernest Hausbrandt fondatore a Trieste dell’omonima società divenuta famosa nel tempo per il caffé tostato.

Nel 1892, Hermann Ernest Hausbrandt fondò a Trieste la “Prima Tostatura Triestina di Caffè”, che dal 1925 operò come “H. Hausbrandt s.p.a.”, la cui gestione passò prima al figlio, Hermann Hausbrandt, poi al nipote Ermanno e quindi alla bisnipote Rosanna. Nel 1988 l’intero pacchetto azionario venne ceduto a Martino Zanetti, mentre l’azienda ed i marchi furono ceduti a S.I.L.A. s.p.a. che si fuse per incorporazione nella “Hausbrandt Trieste 1892 s.p.a.”, ricorrente principale nel procedimento per cassazione (di seguito HT), titolare del marchio denominativo “Hausbrandt”.

Nel 1994 il bisnipote del fondatore, Alessandro Hausbrandt, controricorrente e ricorrente incidentale nel procedimento per cassazione (di seguito AH) costituì la “Hausbrandt & C. s.r.l.”, poi ridenominata “Antica Tostatura Triestina di HAUSBRANDT & C. s.r.l.”, quindi “Antica Tostatura Triestina s.p.a.”, ora in liquidazione, intimata (di seguito ATT). 

Nel 2002 le controversie giudiziali insorte tra le società HT e ATT, aventi il medesimo oggetto sociale, trovarono una composizione in un accordo transattivo stragiudiziale, in base al quale: i) ATT e AH si impegnarono a non utilizzare il termine “Hausbrandt” come marchio o segno distintivo (con conseguente sua eliminazione dalla denominazione sociale) o in altre modalità tali da creare confusione o sovrapposizione con la storia, l’avviamento e le attività riconducibili ad HT; ii) AH trasferì ad HT i domini www.hausbrandt.com e www.hausbrandt.it; iii) AH fu autorizzato ad usare il termine “Hausbrandt” solo associato al proprio nome “Alessandro”. 

Nonostante l’accordo transattivo, la battaglia giudiziale tra le parti ha avuto ulteriori sviluppi fino a giungere alla sentenza con cui il Tribunale di Venezia ha accolto la domanda di accertamento della violazione dell’art. 2598, nn. 1, 2 e 3 c.c. per le condotte anticoncorrenziali consistite nell’«utilizzo del cognome Hausbrandt e l’evocazione della storia famigliare alla base del legame tra il caffè e la città di Trieste sui siti internet di “Antica Tostatura Triestina s.p.a.” e nella brochure pubblicitaria, con condanna all’eliminazione di detti riferimenti e pubblicazione della sentenza», dichiarando risolto l'accordo transattivo del 2002 per grave inadempimento dei convenuti. Con sentenza definitiva n. 216 del 2017 lo stesso Tribunale, premessa la «prova in atti della utilizzazione da parte dei convenuti della lunga storia della famiglia Hausbrandt al fine di accreditarsi sul mercato come coloro che proseguono l'attività commerciale iniziata nel 1892 dal comandante Hausbrandt», in modo intenso e pervasivo anche in ragione dei mezzi utilizzati, ha condannato AH e ATT al risarcimento danno non patrimoniale all’immagine di HT, liquidato equitativamente in euro 50.000,00.

Confermata la sentenza di primo grado da parte della Corte d’Appello, la controversia è giunta dinanzi alla Corte di Cassazione la quale si è pronunciata con ordinanza n. 37839 depositata il 27 dicembre 2022.

La Suprema Corte, con detta pronuncia, rigetta tutti i motivi di doglianza presentati, ritenendo invece fondato il sesto motivo d’impugnazione proposto dal ricorrente che denunzia la nullità parziale della sentenza impugnata per omessa pronuncia ex art. 112 c.p.c., e segnatamente per omesso esame del motivo di appello relativo alla violazione delle norme sulla pubblicità ingannevole ex artt. 2, comma 1, lett. b) e 3, D.Lgs. n. 145 del 2007.

In particolare, nell'ordinanza in esame, la Cassazione ricorda che secondo dottrina e giurisprudenza occorre distinguere il diritto al nome (rientrante nell’area dei diritti della personalità) dal diritto al marchio (rientrante nell’area dei segni distintivi), sceverando la funzione identificativa del nome dal suo ruolo distintivo in campo imprenditoriale, e regolando il potenziale conflitto che sorge tra i due ambiti in caso di marchio patronimico, quand’anche celebre (cfr., in caso di marchio celebre, Cass. 298/2020, Fiorucci e Cass. 13921/2020). 

In effetti l’art. 21, comma 1, lett. a), c.p.i. – come modificato dall'art. 10, comma 1, lett. a), del D.Lgs. 20/2/2019, n. 15, in ottemperanza alla Direttiva (Ue) del Parlamento Europeo e del Consiglio del 16/12/2015 n. 2436 sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d'impresa (rifusione) 2015/2436/CE, considerando 27 e art. 14) – prevede che i diritti di marchio d'impresa registrato permettono al titolare di vietare ai terzi l'uso del proprio nome o indirizzo nell'attività economica a due condizioni:

  • anzitutto, si deve trattare di persona fisica
  • in secondo luogo, l’uso deve essere conforme ai principi della correttezza professionale.

Quest’ultima condizione esprime la valenza principalmente pro-concorrenziale delle norme dirette a comprimere il diritto di privativa industriale sui segni distintivi (come il marchio e la denominazione sociale) quando il segno simile o confondibile utilizzato dal terzo nello svolgimento di attività imprenditoriale sia costituito dal proprio nome e cognome. Da qui, secondo la Suprema Corte, ne discende l’importanza della distinzione tra l’uso del patronimico in funzione descrittiva o distintiva. Solo nel caso del patronimico con funzione distintiva si riconnettono anche la funzione pubblicitaria del marchio, intesa come capacità persuasiva del consumatore, e la funzione di garanzia dell’originalità del prodotto rispetto a quelli concorrenti. 

A tali principi la Corte aggiunge che in tema di contraffazione del marchio e di concorrenza sleale affinché sia configurabile la responsabilità̀ dell’imprenditore per il fatto del terzo, è necessario che tra l’autore dell’atto e l’imprenditore avvantaggiato sussista un rapporto oggettivo, inteso come comunanza di interessi, fatta salva la possibilità̀ per l’imprenditore avvantaggiato di dimostrare la propria estraneità̀, al fine di evitare di rispondere per il fatto del terzo. 

A tal riguardo, sotto il profilo dell’onere probatorio, nei casi di concorrenza sleale c.d. indiretta non si applica l’inversione di cui alla presunzione di colpa ex art. 2600, comma 3, c.c., la cui operatività «resta esclusa nel caso di commissione della condotta anticoncorrenziale da parte del terzo e di riferibilità della stessa all’imprenditore involontariamente beneficiato» (Cass. 7476/2017).