• Marchi patronimici

28 giugno 2022

Cessione del marchio patronimico: i consumatori non sono più legittimati a collegare il marchio al cedente quando il cessionario ha adeguatamente pubblicizzato le informazioni inerenti alla cessione

In una recente causa, la Suprema Corte ha richiamato le argomentazioni della sentenza impugnata per definire un caso di cessione dell'uso del patronimico, in cui l'organo giudicante ha distinto il marchio patronimico del cedente (uno stilista) dal diverso marchiocontenente il segno patronimico ma non coincidente con lo stesso, utilizzato dal cessionario (una società fondata e poi lasciata dallo stilista) ed ha enucleato gli indici fattuali e giuridici che hanno consentito di escludere l'ingannevolezza del "nuovo" marchio rispetto al "pregresso" segno patronimico, utilizzato nel campo della moda.


Il caso origina dalla stipula di un accordo transattivo tra lo stilista “Alviero Martini” e la società dallo stesso fondata, “Alviero Martini s.p.a.” avente ad oggetto la cessione alla società dell’uso del marchio patronimico del fondatore, nel contesto del marchio “Alviero Martini Prima Classe”, e del diritto di sfruttamento dell’opera “Geo”, creata dal medesimo.

Successivamente, lo stilista decide di adire il Tribunale di Milano per l'accertamento del presunto inadempimento dell’accordo da parte della società, asseritamente consistito nella mancata pubblicazione della notizia del distacco dello stilista dalla società e, più in generale, nella mancata comunicazione al mercato della sua estraneità a essa.

Al rigetto delle domande di inadempimento presentate in primo grado seguono una pronuncia della Corte d’Appello di Milano (sentenza n. 4580/2017), dello stesso tenore, in quanto reiettiva del gravame proposto, ed il ricorso (n. 3633/2018) in cassazione della parte soccombente per contestare l’esito del giudizio d’appello.

Il ricorrente censura la sentenza impugnata per aver respinto il motivo di gravame relativo all’erronea valutazione dell’importanza e delle conseguenze dell’inadempimento della transazione da parte della società, ma la Cassazione ritiene il motivo addotto inammissibile e l’inadempimento contestato alla società da escludere, in considerazione del fatto che la pubblicazione della notizia del distacco era in effetti avvenuta sia a mezzo di noti quotidiani e riviste (come confermato dalla stessa Corte d’Appello) sia sul web, sebbene una tantum (come si evince dalla stessa allegazione del ricorrente).

In ordine alla questione, già sollevata dal ricorrente nei precedenti gradi di giudizio e riproposta in cassazione, circa la presunta ingannevolezza sopravvenuta del marchio “Alviero Martini Prima Classe” e la conseguente sua decadenza, la Suprema Corte reputa che l'obiezione mossa vada disattesa, richiamando quanto osservato dalla Corte d’Appello in merito alla mancata dimostrazione di un inganno effettivo, e in ogni caso sufficientemente grave, sulle qualità e caratteristiche dei prodotti contraddistinti, tale da riflettersi direttamente sul marchio.

Premesso che proprio in base alla transazione era stato attribuito alla società il diritto di usare o far usare in qualunque forma e modo l’espressione “Alviero Martini Prima Classe” come marchio o come segno distintivo, sotto il profilo oggettivo, focalizzato dalla condotta del cessionario, si rileva in giudizio che la società si era mantenuta nei limiti di rispetto delle clausole transattive, utilizzando e spendendo il nome “Alviero Martini” unitamente all’espressione “Prima Classe” esattamente come le consentiva l’atto di acquisto.

Infine, il ricorrente denunzia la violazione o falsa applicazione dell'art. 14, secondo comma, lettera a) del D.Lgs. n. 30/2005 (Codice della Proprietà Industriale) sotto l’aspetto del decadimento qualitativo dei capi recanti il marchio “Alviero Martini Prima Classe”, lamentando che nel caso concreto veniva in considerazione la non conformità qualitativa dei prodotti recanti il marchio in questione agli standard che il pubblico era abituato a collegare ai marchi di Martini.

L’art. 14 c.p.i. rubricato “Liceità e diritti di terzi”, alla lettera a del secondo comma statuisce che:

“2. Il marchio d'impresa decade:

a) se sia divenuto idoneo ad indurre in inganno il pubblico, in particolare circa la natura, qualità o provenienza dei prodotti o servizi, a causa di modo e del contesto in cui viene utilizzato dal titolare o con il suo consenso, per i prodotti o servizi per i quali è registrato;”.

Tale decadimento, a dire del ricorrente, avrebbe dovuto rilevare di per sé, alla stregua di inadempimento della transazione e comunque alla stregua di violazione della norma citata a presidio del marchio. La Cassazione ritiene il motivo inammissibile ed infondato, in base alle seguenti considerazioni, svolte dalla Corte d’Appello e mutuate da distinti accertamenti in fatto:

  • (i) la produzione successiva all’uscita dello stilista era avvenuta sotto il marchio “Alviero Martini Prima Classe”, e non del solo patronimico;
  • (ii) la circostanza del distacco era stata messa a disposizione del pubblico dei consumatori, in conformità all’atto transattivo;
  • (iii) in nessuna parte di tale atto era stato previsto un obbligo di mantenimento qualitativo, o comunque una possibilità di perdurante controllo da parte del cessionario;
  • (iv) in ogni caso nessun obbligo di mantenimento di particolari standard qualitativi era stato assunto dalla cessionaria nei confronti del cedente.

Diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, l’eccepito deficit qualitativo dei prodotti non poteva costituire, di per sé, né un inadempimento contrattuale, quanto agli obblighi assunti con la transazione, né una violazione delle caratteristiche del marchio tale da rappresentare la fattispecie di decadenza di cui all’art. 14 del c.p.i. e, specificamente, non poteva esserlo, da questo secondo punto di vista, perché la decadenza per decettività sopravvenuta impone di dimostrare - cosa che la Corte d’Appello ha escluso in fatto - che uno standard qualitativo del marchio patronimico sia apprezzabile dal pubblico dei consumatori (non in sé e per sé, ma) in relazione al modo e al contesto di utilizzazione da parte del cessionario.

La Corte ha stabilito che, una volta attivate le condotte informative da parte della cessionaria mediante la diffusione delle notizie circa il distacco dello stilista dalla società, e una volta realizzata la produzione col marchio “nuovo” dopo che una tale mutazione era stata oggetto di valida attività informativa presso il pubblico “mediante molteplici pubblicazioni su riviste di spicco nel settore della moda”, il pubblico dei consumatori non era più legittimato a collegare - oggettivamente - il marchio allo stilista cedente, né i prodotti al marchio originario.

In conclusione, la Corte di Cassazione, con ordinanza n. 20269 del 23 giugno 2022, ritiene che il ricorso deve essere rigettato, affermando il seguente principio di diritto:

“in tema di cessione di marchio patronimico, l'art. 14, comma 2, lett. a), del c.p.i., nel prevedere la generale decadenza del marchio che sia divenuto idoneo a indurre in inganno il pubblico circa la qualità o provenienza dei prodotti, implica non semplicemente che si stabilisca l'eventualità di un peggioramento purchessia dei livelli qualitativi dei prodotti contraddistinti, ma che sia accertata una relazione eziologica col modo e col contesto in cui il marchio viene utilizzato dal nuovo titolare; l'accertamento di tali profili - il modo e il contesto -, e della stessa relazione eziologica, é questione di fatto, e il relativo giudizio, se debitamente motivato, resta sottratto al sindacato di legittimità”.