5 agosto 2025
Identità o imitazione? I confini del look alike nel food packaging
di Chiara Carmen De Lisi
Ogni giorno, milioni di consumatori compiono un gesto all’apparenza banale: scegliere un prodotto tra decine di alternative. Spesso si tratta di un’azione rapida, quasi automatica, ma dietro quella scelta si cela un’interazione visiva complessa, fatta di riconoscibilità dell’identità di un prodotto. Il food packaging ha smesso da tempo di essere solo un involucro protettivo, divenendo ormai segno individualizzante e distintivo, interfaccia comunicativa di un brand e strumento di posizionamento competitivo. È ciò che guida l’attenzione del consumatore, condizionandone le scelte d’acquisto ancor prima del contatto diretto con il prodotto.
Nel settore alimentare dove le scelte grafiche si ripetono e i margini di originalità si assottigliano, il packaging non è più solo una leva di marketing, ma un potenziale terreno di contenzioso, ponendo dubbi su quali siano i confini dell’istituto del c.d. “look alike”, mutuato dal diritto statunitense.
Look alike: il confine tra “identità” e concorrenza sleale
Il look alike, pur non essendo definito dal legislatore, è stato oggetto di attenzione recente in dottrina e giurisprudenza. Si parla di imitazione delle caratteristiche esteriori individualizzanti di un prodotto noto – come forma, confezionamento, colori, contenitore, elementi grafici – da parte di un concorrente che cerca di inserirsi nella scia del prodotto “leader”. Il rischio è che il consumatore, almeno in un primo momento, possa confondere i due prodotti o associarli alla stessa origine, pur potendo riuscire, in seguito ad una valutazione più attenta, a percepirne le differenze.
Secondo il consolidato orientamento delle Corti di merito italiane, il fenomeno può integrare gli estremi della concorrenza sleale per imitazione servile ai sensi dell’art. 2598, n. 1, c.c. (Trib. Torino, ord. 14.01.2023, in SPRINT, caso “Zzzquil”; Trib. Napoli, ord. 11.07.2000, in Giur. dir. ind., 2000, 1053, caso “Gran Turchese Colussi”) o, in certi casi, per appropriazione di pregi ex art. 2598, n. 2, c.c. (Trib. Milano, 21.07.2004, in Giur. dir. ind., 2005, 4829, caso “Emiliane Barilla”). Perché l’imitazione sia illecita, secondo la recente giurisprudenza, occorre però che il prodotto imitato presenti un trade dress originale e distintivo, ossia una veste grafica dotata di elementi “arbitrari” che lo rendano immediatamente riconoscibile e quindi distintivo rispetto agli altri prodotti dello stesso tipo.
Va sottolineato, tuttavia, che non ogni somiglianza rileva ai fini della tutela del prodotto presunto oggetto di imitazione. Quando le forme, i colori o gli elementi grafici rivendicati risultano di uso comune nel settore merceologico di riferimento – in quanto funzionalmente necessari, standardizzati o divenuti consueti nella percezione del pubblico – viene meno il requisito della distintività, con conseguente insussistenza della tutela in sede di concorrenza sleale. Il giudizio sulla confondibilità non può prescindere dal contesto di mercato. Nel noto caso dei biscotti Barilla (Trib. Brescia, 18.03.2024, in DeJure), il Tribunale ha chiarito che l’affollamento del settore merceologico incide sulla valutazione: più prodotti simili esistono, più piccoli dettagli possono bastare per distinguerli.
Il caso vinto da Trevisan & Cuonzo: la bottiglia d’olio contestata

Nel quadro giurisprudenziale ancora in evoluzione sul tema del look alike, si inserisce una recente decisione del Tribunale delle Imprese di Bari. Lo Studio legale Trevisan & Cuonzo ha assistito un’azienda pugliese leader nella produzione di olio extravergine di oliva destinato alla grande distribuzione, in una controversia in materia di concorrenza sleale per imitazione servile e appropriazione di pregi. Con la sentenza del 12 maggio 2025, ormai definitiva, il Tribunale ha rigettato integralmente le domande avanzate dalla parte attrice – un’altra nota realtà attiva nel settore oleario della GDO – che lamentava un presunto caso di look alike, sostenendo che il packaging della bottiglia di olio EVO della società convenuta riproducesse in modo confusorio quello di un proprio prodotto dello stesso tipo. Secondo la tesi avversaria, la forma tondeggiante della bottiglia, l’etichetta con sfondo giallo e scritte rosse, il tappo giallo e la decorazione con greca a forma di ulivo costituivano elementi estetici imitati, suscettibili di generare agganciamento parassitario e confusione nel consumatore medio.
Di contro, il Tribunale di Bari ha escluso la sussistenza di qualsiasi rischio confusorio, evidenziando come la combinazione degli elementi estetici presenti sul packaging del prodotto dell’attrice non fosse né originale né distintiva, ma piuttosto espressione di uno stile comune e consolidato tra i prodotti analoghi presenti sugli scaffali della grande distribuzione.
Lo scaffale virtuale: un approccio innovativo di legal design

Uno degli elementi determinanti della strategia difensiva di Agridè, richiamato espressamente dallo stesso Tribunale nella sua decisione, è stata l’introduzione di una prova visiva immersiva, con un approccio innovativo di legal design: uno scaffale virtuale, che raffigura un’esatta ricostruzione di tutte le bottiglie di olio presenti sugli scaffali della GDO caratterizzate da alcuni elementi comuni (forma, confezionamento, colori, elementi grafici). Questa rappresentazione ha permesso al Giudice di valutare la percezione complessiva del packaging nel contesto reale d’acquisto, anziché in un’analisi isolata e decontestualizzata. Il Tribunale ha così riconosciuto che gli elementi contestati erano ampiamente diffusi nel settore oleario e, proprio per questo, incapaci di evocare un’origine commerciale univoca e distintiva. È stata pertanto esclusa la configurabilità di concorrenza sleale.
Questa decisione si inserisce a pieno nel solco dell’orientamento giurisprudenziale più attento al contesto competitivo e alla percezione del consumatore medio, riconoscendo che – soprattutto in settori saturi – anche minime differenze possono bastare per escludere la confondibilità. Inoltre, valorizza un approccio probatorio visivo e dinamico, fondato non sulla valutazione astratta delle singole confezioni, ma sul modo in cui esse si presentano accanto a quelle dei concorrenti, nello spazio fisico in cui avviene la scelta d’acquisto: lo scaffale.
Oltre a segnare una vittoria sul piano giuridico, il caso offre indicazioni operative rilevanti per le imprese del settore alimentare. In particolare, sottolinea l’importanza per gli operatori del settore di valutare attentamente il contesto visivo di mercato prima di sviluppare o modificare un packaging, tenendo conto delle soluzioni grafiche già diffuse e del livello di distintività effettiva delle proprie scelte di branding.
Il fenomeno del look alike, infatti, va affrontato non solo come questione di diritto, ma anche come problema di posizionamento e percezione all’interno di un mercato visivamente affollato, in cui le immagini e il trade dress parlano prima dell’assaggio. Allo stesso modo, il packaging non può più essere considerato solo un mezzo di comunicazione, ma deve essere riconosciuto come potenziale oggetto di valutazione giuridica comparativa, da analizzare nel suo contesto reale di utilizzo: il punto vendita e lo scaffale.
Dott.ssa Chiara Carmen De Lisi
Trevisan & Cuonzo






