13 aprile 2020

Quando l’aquila vola basso

La memoria collettiva, nella sua valenza sociale e pubblica di patrimonio memoriale di gruppi connotati da un forte collante identitario e principi generali condivisi, rimanda a concetti presenti in ogni ordinamento europeo. Nella P.I. assume particolare rilievo nella disciplina del marchio comunitario (Regolamento UE 2017/1001, art. 7, 1, f) che nega la registrazione nel caso di contrarietà all’ordine pubblico o al buon costume. Il divieto non implica quello della libertà dell’uso del marchio, ma la delimitazione degli interessi da tutelare.

Secondo l’articolo 7, paragrafo 1, lettera f), RMUE i marchi contrari all’ordine pubblico o al buon costume sono dichiarati nulli. Questo motivo assoluto di rifiuto del Regolamento europeo riflette la disposizione già contemplata nell'articolo 6 quinquies B sezione iii) della Convenzione dell'Unione di Parigi che prevede:

"I marchi regolati da questo articolo non possono essere rifiutati per la registrazione o invalidati, tranne nei seguenti casi: iii) quando sono contrari alla moralità o all'ordine pubblico (...) ”.

Questo divieto mira a proteggere il consumatore da marchi che possono essere inquietanti, offensivi, offensivi o persino minacciosi.

Recentemente la Divisione di annullamento dell’EUIPO (n. 20 461 C, del 20 gennaio 2020) ha deciso che questo marchio

è contrario al buon costume, in relazione a questo segno,

corrispondente alla Parteiadler, all’aquila del partito nazista.

L’immagine dell’aquila artigliata con le ali spiegata è sempre stata presente nella simbologia tedesca dell’impero austro-ungarico, ma è soltanto a partire dell’avvento del Terzo Reich che ha incluso la svastica, fine a divenire in tutte le sue varianti la vera e propria icona di quel regime in tutte le sue manifestazioni. Anzi, la svastica di per sé sola, ha finito per rappresentare  nel corso degli anni lo Sato e il movimento nazista.

La decisione è sicuramente apprezzabile per la completezza argomentativa e la casistica riportata, davvero completa (anche dei casi La mafia se sienta a la mesa e Fack Ju Göhte  quest'ultimo da me commentato in un precedente Avviso).

E’ stata prodotta una imponente documentazione, tuttavia dal significato non univoco, sulla legittimità dell’uso della svastica.

Peraltro, tale documentazione ed il dibattito, tuttora aperto che ne scaturisce, è giuridicamente inutile  – a mio modo di vedere – perché è pacifico che l’applicazione della norma in esame prescinde dalle interpretazioni e intendimenti soggettivi delle parte o dei terzi: occorre infatti considerare  la portata intrinseca del marchio, considerato l’interesse generale che la norma sottende.

Ciò premesso, l’EUPO ha ritenuto che il marchio contestato evocherebbe  nelle maggioranza dei consumatori un simbolo del partito nazista e le attività criminali da esso perpetrate, per cui costituisce una violazione dei valori sui quali si fonda l’Unione, concludendo per la sua nullità.

Peccato che non sia per niente d’accordo.

La decisione, infatti, è affetta da un vizio di origine che travolge tutta la motivazione. Il difetto sta nel non aver considerate debitamente l’identità dei due segni a confronto, identità senza la quale non può darsi riconoscimento o associazione alcuna.

Il marchio contestato è un marchio complesso, costituito da un elemento figurativo (l’aquila) e da un elemento denominativo (BOY, tralasciando London). Il marchio considerato dalla Divisione di annullamento è invece un marchio composto da due elementi figurativi, l’immagine dell’aquila e della svastica.

Occorreva dunque ricercare e identificare nei due segni l’elemento dominante, fondante l’impressione generale del pubblico di riferimento, e poi valutare se questo elemento fosse o meno determinante della sua distintività.

A riguardo, la decisione incorre in una significativa contraddittorietà. Si sostiene dapprima “che l’elemento figurativo dell’aquila e la parola “Boy”, sia per lo spazio che occupano sia per la loro posizione centrale nel marchio, dominano (NB.: entrambi) l’immagine complessiva del segno.“.

Successivamente, si dice che “assume rilevanza la circostanza che la raffigurazione dell’aquila posta sulla parola “Boy” costituisca la componente dominante del segno, ossia l’immagine capace di attirare l’attenzione del consumatore.“.

Il fatto è che nel marchio composto l’immagine dell’aquila e la croce uncinata costituiscono  un unicum in cui i due elementi interagiscono l’un con l’altro in un rapporto inscindibile storicamente comprovato, e quindi oggettivamente valutabile perché la storia rappresenta i fatti nella loro neutralità, e non nella loro interpretazione. Non sarebbe immaginabile che la sola immagine del rapace avesse potuto rappresentare il nazismo, dal che si evince che tutto l’impianto associativo della motivazione della decisione non può reggere senza la presenza della svastica nel marchio contestato.

L’immagine dell’aquila è diffusissima nella simbologia semiotica e nell’immaginario collettivo come attributo di forza, aggressività e dominio. Ma nessuna sua rappresentazione può pretendere l’esclusiva della distintività nella realtà e nel diritto di marchio senza l’attribuzione di una sua specifica qualificazione. Nella fattispecie, infatti, il segno riferito nella decisione trova il suo completamento qualificante, e quindi dominante, nell’attributo della svastica che inequivocabilmente alimenta e rimanda all’associazione con il nazismo. Nel marchio contestato non compare.

Se pensiamo all’aquila dell’ antico Egitto


la riconosciamo come tale perché la sua riproduzione è qualificata e accompagnata dagli attributi della divinità Horus.

Ovviamente l’immagine della svastica, con o senza l’aquila sovrastante, mantiene la sua identità attraverso le diverse varianti che ne sono state date, fino a che il  suo significante denotativo non viene abbandonato e sostituito con una variane del tutto incongrua: “BOY”. Varianza rilevante nel contesto del confronto tra i due segni.

In conclusione, dunque, all’EUIPO l’aquila ha volato basso.

 

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