23 aprile 2020
Il diritto e la sua applicazione al tempo del corona-virus
C’è una gran confusione in giro in questi giorni, In Italia e non solo, sul coronavirus. Lo si può comprendere, visto che neanche la scienza ci capisce granché. Anche il mio giornalaio, quindi, ha diritto di dire la sua, e quindi diviene un esperto.
Il fatto è che nella discussione che si è aperta su come uscirne, sembra che il nostro Paese si sia dimenticato totalmente di quella cosa che si chiama diritto. Il diritto, anzi l’ordinamento giuridico che ne fa sistema.
Dopo qualche millennio, che se ne discute tra le grandi menti, si è capito che il diritto si giustifica perché senza di esso gli uomini si ammazzerebbero tra di loro. Se è vero che homo homini lupus est, è altrettanto vero che l’uomo è un animale sociale: e questo è il grande paradosso. Ciò detto, l’ordinamento nasce, appunto, per mettere ordine. Identifica gli interessi più rilevanti di una comunità e li traduce in regole che vengono poi interpretate ed applicate da chi di dovere.
Se c’è una legge, va applicata, Se no, non serve a nulla. Ora, nella situazione in cui stiamo vivendo, sarà bene ricordare che la prima legge nel nostro ordinamento è scritta nella Costituzione, che ammette in casi eccezionali, come quello certamente della pandemia, la possibilità di ricorrere a misure eccezionali. È quello che sta cercando di fare quel povero Cristo dell’Avv. Conte, garantendo che siamo pur sempre in una democrazia liberale e combattendo con chi dell’interesse generale gliene importa ben poco.
Dunque, ma di quale confusione stiamo parlando? Se c’è una legge, questa va applicata a livello nazionale ed il suo regolamento potrà specificarne i dettagli, ma non potrà mai contraddirne l’applicazione o metterne in discussione l’esistenza.
Stato e regioni. Ognuno faccia la sua parte. Se il governo mi dice che da domani in tutto il territorio nazionale (ovviamente) mi devo mettere un cappello rosso quando esco di casa, spiegando che serve a combattere il virus, tutti lo devono fare. Il che non esclude che se un governatore o qualsiasi altra istituzione voglia metterci sopra una penna, come nel capello degli alpini, lo potrà fare, se lo ritiene utile e necessario. Quello che non potrà fare è, invece, di tradurre un obbligo di legge in una blanda raccomandazione facoltativa: questo starebbe a dire che la legge in quel territorio non vale, perché verrebbe disattesa o disapplicata.
Non c’è molto da discutere, tantomeno ci si può confondere, salvo il principio che ciascuno di noi poi è libero di interpretare la legge come gli pare. Direi anzi che tutto questo già ci sta, come dimostra nei suoi due ultimi contributi su SPRINT l’amico Cesare GALLI (Contraffazione di brevetto per fronteggiare l’emergenza Coronavirus: le possibili esimenti e Internet of Things, impronta digitale, smart living, tecnologie per la vita: le strategie per valorizzare e difendere al meglio le proprie innovazioni e per ridurre il rischio di violare i diritti altrui), che come giurista è molto più bravo di me, nella sua analisi del nostro sistema normativo a tutela della Proprietà intellettuale in questo momento critico.
Ricordandomi di esserlo anch’io un giurista e dimenticando questa volta le mie escursioni nelle scienze cognitive, vorrei quindi dare un modesto consiglio ai nostri concittadini: si informino e se il sindaco di Lambrate ci dice che è meglio mettere una penna su quel cappello rosso, ma che sia di color verde, lo facciano, per favore, senza fare tante storie e distinguo. Se invece il governatore vuole che ci mettiamo sopra un vaso di gerani – a parte la difficoltà nel motivare l’utilità della misura nella lotta contro il virus – lasci perdere. Se Le fanno una contravvenzione, non si preoccupi che di avvocati ne troverà quanti ne vuole.
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