28 settembre 2020

Se il leone non ruggisce

L’idea di rappresentare l’immagine di un animale per comunicare qualcosa risale a molto tempo fa.

Come mai? Il fatto è che nell’immaginario collettivo la figura dell’animale si è sempre caricata di significati simbolici attribuibili, associabili o derivabili dalla sua identità e dalle sue caratteristiche essenziali comunemente riconosciute dall’umano.

Questo spiega perché la rappresentazione degli animali la troviamo non solo nei marchi d’impresa, ma anche nelle arti figurative, i rituali religiosi, l’astronomia e l’astrologia, l’araldica, la mitologia, i bestiari del Medioevo, in breve nella storia e la cultura di ogni tempo. Leoni, aquile e cani tra i più gettonati.

Le immagini degli animali hanno la caratteristica di essere altamente distintive, come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza comunitaria. I marchi che li rappresentano sono inerentemente molto forti perché di norma hanno poco o nulla a che vedere con i prodotti e i servizi che contraddistinguono. Una tigre o un leone non sono descrittivi della natura o delle caratteristiche di alcun prodotto, ma il loro significato simbolico e denotato è destinato invece a portare un messaggio al pubblico per provocare assenso e consenso.

Ma come si pone il consumatore davanti a questo tipo di marchio figurativo?

Il fatto è che la valutazione giuridica di un marchio deve essere sempre contestualizzata, va tenuto conto cioè di tutte le circostanze di fatto e di diritto afferenti e pertinenti al caso di specie. E’ così accaduto che in un caso piuttosto curioso l’UKIPO, l’Ufficio della Proprietà Intellettuale del Regno Unito, con decisione 24/08/2020 ha rifiutato la registrazione di questo marchio per i servizi di educazione e istruzione nella classe 41, in base alla legge marchi inglese che vieta la registrazione dei marchi “che possono indurre le persone a pensare che il richiedente abbia  o abbia recentemente avuto il patrocinio o l’autorizzazione reale “.

Secondo la decisione è intrinsecamente probabile che gli utenti possano dedurre “che il titolare di quel marchio sia un soggetto che detiene o deteneva in precedenza il titolo ufficiale nella famiglia reale in relazione alla formazione o all'istruzione relativa ai servizi di un maggiordomo  (butler)  e/o al galateo”. 

In questa singolare vicenda occorre premettere che la base giuridica dell’interdizione alla registrazione del marchio riposa sulla specifica disposizione della legge marchi inglese riportata, posta, evidentemente, a protezione dell’immagine della Corona e dell’istituzione monarchica. In questo caso si voleva evitare, in altre parole, che il marchio portasse a far credere che a monte ci fosse stata una autorizzazione o un qualche patrocinio dell’adozione e dell’uso dell’espressione verbale “THE ROYAL BUTLER” da parte di un terzo.

Le prove in tal senso non c’erano e così si è deciso per il no, anche se il richiedente aveva fatto parte sin al 2011 dello staff dei maggiordomi della Casa reale.

Quid juris dell’immagine leonina? Una cosa è certa: non si trattava dell’emblema o dell’immagine araldica ufficiale della monarchia britannica, ma di qualcosa che tendeva a somigliarle. Sulla distintività e l’efficacia dell’immagine il giudicante in motivazione mostra qualche esitazione: non tutti i sudditi avrebbero un’idea precisa del simbolo ufficiale. Ma alla fine conclude per la sua irrilevanza, nonostante l’evidente richiamo semantico dell’immagine all’idea della reale sovranità.

Si trattava, così concludeva il giudicante, di una rappresentazione meramente decorativa. Questa volta il leone non ha ruggito.