• Diritti di proprietà industriale - Aspetti generali

7 giugno 2023

Cassazione civile, sez. V, 07/06/2023, n. 16110 [Diritti di proprietà industriale - Avvisi di rettifica su dichiarazioni doganali di importazione definitiva - Pagamento dei diritti di licenza da parte dell’acquirente al licenziante]

Diritti di proprietà industriale - Avvisi di rettifica su dichiarazioni doganali di importazione definitiva emessi perchè, al momento dell’importazione in Italia dei beni con il marchio PRADA, il valore doganale è stato determinato sulla base del prezzo di transazione con il produttore senza aggiungere i diritti di licenza corrisposti al licenziante - Pagamento dei diritti di licenza da parte dell’acquirente al licenziante quale condizione per la vendita dei prodotti - Nozioni di controllo indiretto e di "potere di costrizione o di orientamento" sulla produzione esercitato dal licenziante.

 


SENTENZA

(Presidente: dott. Biagio Virgilio - Relatore: dott. Giuseppe Fuochi Tinarelli)


 

sul ricorso iscritto al n. 20123/2020 R.G. proposto da:

CAD Sernav Toscana Srl, già Centro Assistenza Doganale, CAD Euromar Srl, rappresentata e difesa dall’Avv. Massimo Fabio, pec: mfabio@pec.kstudioassociato.it, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma via Curtatone n. 3, giusta procura speciale in calce al ricorso;

- ricorrente -


contro

Agenzia delle dogane e dei monopoli, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la quale è domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

- controricorrente -


avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Toscana sez. staccata di Livorno n. 1721/10/19, depositata il 3 dicembre 2019.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio della pubblica udienza del 7 marzo 2023 dal Cons. Giuseppe Fuochi Tinarelli.

Lette le conclusioni formulate dal Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Tommaso Basile, che ha concluso per il rigetto del ricorso.



FATTI DI CAUSA

 

L’Agenzia delle dogane e dei monopoli (di seguito anche ADM) emetteva nei confronti di CAD Sernav Toscana Srl (di seguito anche CAD), già CAD Euromar Srl, quale rappresentante indiretto di PRADA Spa, avvisi di rettifica su numerose dichiarazioni doganali di importazione definitiva relative all’anno 2010 per aver la stessa, al momento dell’importazione in Italia dei beni con il marchio PRADA, determinato il valore doganale sulla base del prezzo di transazione con il produttore senza, però, aggiungere i diritti di licenza corrisposti alla licenziante.

L’Ufficio evidenziava che PRADA Spa aveva stipulato con PRADA S.A., società di diritto lussemburghese appartenente al 100% alla prima e titolare dei diritti di marchio e licenza, un contratto di licenza di trasferimento a PRADA Spa, a titolo esclusivo e mondiale, del diritto di utilizzo dei marchi di proprietà della seconda.

Per la realizzazione dei relativi articoli PRADA Spa si avvaleva di fornitori extra UE terzi, con i quali stipulava distinti contratti di produzione ed acquisto della merce; al momento dell’importazione il valore in dogana era determinato sul prezzo di transazione, senza, tuttavia, aggiungere i diritti corrisposti a PRADA S.A. (licenziante) da PRADA Spa (licenziataria o importatore), ancorché tale pagamento dovesse considerarsi condizione per la vendita dei prodotti stessi.

L’impugnazione della contribuente era accolta dalla CTP di Livorno.

La sentenza era riformata dalla CTR in epigrafe, che riteneva gli avvisi legittimi e tempestivi e la pretesa fondata atteso il controllo, diretto e indiretto, esercitato dalla licenziante sulla produzione e la natura di condizione della vendita del pagamento dei diritti di licenza.

CAD Sernav Toscana Srl ricorre per cassazione con otto motivi, poi illustrato con memoria.

Resiste l’Agenzia delle dogane e dei monopoli con controricorso.



RAGIONI DELLA DECISIONE

 

1. Preliminarmente va ribadita l’inammissibilità dell’istanza di discussione orale depositata dal difensore in data 20 febbraio 2023 in violazione del termine di almeno 25 giorni prima dell’udienza.

Non rileva che il decreto di fissazione dell’udienza pubblica sia stato emesso in data 12 dicembre 2022 - anteriormente alla proroga della disciplina di cui all’art. 23, comma 8-bis, D.L. n. 137 del 2020 operata con l’art. 8 della legge 29 dicembre 2022, n. 198 - e, quindi, senza l’avviso per le parti.

Il decreto del Primo Presidente del 3 gennaio 2023, con cui sono state regolate le modalità di trattazione in pubblica udienza in forza della legge di proroga, ha infatti precisato, proprio per tali ipotesi, che il PG e le parti "si considereranno informati in forza della pubblicazione di questa direttiva nel sito internet della Corte", che è stata effettuata nella stessa data del 3 gennaio 2023.

2. Il primo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 42 D.P.R. n. 600 del 1973 in relazione all’art. 21 septies L. n. 241 del 1990 per aver la CTR ritenuto validi gli avvisi di rettifica nonostante l’eccepito difetto di attribuzione del funzionario sottoscrittore, non avendo l’Ufficio dimostrato il corretto esercizio del potere e la presenza di delega legittimamente conferita.

2.1. Il motivo è inammissibile.

La censura, nel denunciare, a fronte dell’asserita carenza di delega, la nullità dell’atto per difetto di attribuzione, è carente per specificità.

La mera contestazione sull’assenza della delega di firma non può, di per sé, equivalere a sostenere - come correttamente rilevato dalla stessa CTR - l’usurpazione del potere da parte del funzionario firmatario dell’atto senza che non sia contestualmente allegato, almeno, che lo stesso non appartiene ai ruoli dell’Agenzia delle dogane, allegazione che, invece, non è mai avvenuta, posto che neppure con il ricorso per cassazione si deduce la sua estraneità ad ADM.

Ne deriva che nella specie ben può applicarsi il principio, dettato per l’Agenzia delle entrate, ma senz’altro estensibile alla stessa Agenzia delle dogane e dei monopoli, secondo cui «la provenienza di un atto... dall’Agenzia delle Entrate e la sua idoneità a rappresentarne la volontà si presumono finché non venga provata la non appartenenza del sottoscrittore all’Ufficio o, comunque, l’usurpazione dei relativi poteri» (Cass. n. 220 del 09/01/2014; Cass. n. 15470 del 26/07/2016).

Privo di pertinenza è, poi, il richiamo alla sentenza n. 37 del 2015 della Corte costituzionale (v. Cass. n. 5177 del 26/02/2020).

3. Il secondo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., omesso esame di fatto decisivo con riguardo alla mancata considerazione del decreto di archiviazione del procedimento penale per contrabbando.

3.1. Il motivo è inammissibile.

Da un lato, difatti, la CTR ha considerato l’esistenza del provvedimento di archiviazione in sede penale (argomentato, come risulta dal ricorso, in relazione al "contrasto interpretativo sulla normativa doganale in materia di daziabilità delle royalties"), escludendo che esso fosse rilevante, sicché non può ritenersi che vi sia stato un omesso esame.

Dall’altro, la censura è carente di decisività, in alcun modo allegata, non essendo più consentito impugnare la sentenza per criticare la sufficienza del discorso argomentativo a giustificazione della decisione adottata sulla base degli elementi fattuali acquisiti al rilevante probatorio, ritenuti dal giudice di merito determinanti ovvero scartati in quanto non pertinenti o recessivi (Sez. U, n. 8053 del 2014).

4. Il terzo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c., violazione dell’art. 112 c.p.c. per aver la CTR omesso di pronunciare sull’eccepita decadenza per essere stati gli avvisi notificati oltre il termine triennale ex art. 221, par. 3, CDC.

Nelle conclusioni del ricorso, poi, chiede rinvio pregiudiziale in ordine alla rilevanza del decreto di archiviazione ai sensi dell’art. 221, par. 4 CDC.

4.1. Il motivo è infondato.

La CTR ha esplicitamente preso in esame la doglianza ed ha escluso che si fosse verificata una decadenza, osservando che tale conseguenza discende dalla stessa disciplina unionale «purché la notizia di reato, intervenuta prima della scadenza del relativo termine, sia contenuta in un atto emesso dall’autorità giudiziaria o da ufficiali di polizia giudiziaria» e che «non ha nessuna rilevanza, di conseguenza, che la notitia criminis nel caso di specie sia stata archiviata».

4.2. La richiesta di rinvio pregiudiziale in ordine alla decorrenza del termine di decadenza in dipendenza di provvedimento di archiviazione è inammissibile per carenza di rilevanza.

La doglianza è stata formulata solo come omessa pronuncia, come tale infondata, sicché la questione esula dal presente giudizio.

In ogni caso, anche a voler considerare l’irrituale deduzione, nel corpo del ricorso, per cui, ai fini dell’ampliamento del termine per l’accertamento a posteriori, doveva ritenersi irrilevante il decreto di archiviazione del procedimento penale, è priva di fondamento.

Non sussiste, infatti, l’asserita carenza di rilevanza del decreto di archiviazione (v. Cass. n. 24716 del 05/11/2020; v. diffusamente anche Cass. n. 21444 del 06/07/2022) e ciò proprio sulla scorta di quanto affermato dalla Corte di giustizia (CGUE, 17 giugno 2010, Agra, C-75/19; v. anche CGUE, 10 dicembre 2015, Veloserviss, C-427/14; CGUE, 11 luglio 2019, C-304/18; CGUE, 19 ottobre 2017, A, C- 522/16,).

L’art. 221, par. 4, CDC, infatti, non contempla di per sé alcun termine di prescrizione e nemmeno disciplina le cause di sospensione o di interruzione della prescrizione applicabili (CGUE, Agra, punto 33), sicché in assenza di una specifica disciplina unionale della prescrizione, deve operarsi un rinvio al diritto nazionale pro tempore in tema di regime della prescrizione dell’obbligazione doganale (CGUE, Agra, punto 34) e spetta ad ogni Stato membro determinare il regime della prescrizione delle obbligazioni doganali che non sarebbe stato possibile accertare a causa di un fatto che avrebbe potuto dar luogo a un procedimento penale (CGUE, Agra, punto 35).

Ne consegue, secondo la giurisprudenza unionale, che il codice doganale non osta «ad una normativa nazionale in base alla quale, laddove il mancato pagamento dei diritti tragga origine da un reato, il termine di prescrizione dell’obbligazione doganale inizia a decorrere dalla data in cui il decreto o la sentenza, pronunciati nel procedimento penale, sono divenuti irrevocabili» (CGUE, Agra, punto 36).

5. Il quarto motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 32 CDC e 157, 159 e 160 DAC per aver la CTR ritenuto che il pagamento dei diritti di licenza costituisse condizione di vendita.

Deduce, in particolare, l’omessa considerazione dell’art. 159 DAC, che attribuisce all’acquirente la scelta libera dei propri fornitori, in combinato disposto con le altre disposizioni, sicché la CTR avrebbe dovuto verificare se il pagamento dei diritti di licenza da parte dell’acquirente al licenziante costituisse condizione perché il fornitore effettuasse la vendita e avrebbe dovuto valutare se l’acquirente fosse o meno vincolato nella scelta dei fornitori.

In tal senso, il ricorso ai parametri indicati dal Commento 11 del TAXUD-800-2002 EN costituisce criterio di valutazione che può intervenire solo successivamente a tale verifica, che va operata alla luce delle disposizioni contenute nell’accordo di licenza e nei contratti di vendita, che nulla prevedono sul punto limitandosi a fornire indicazioni al solo fine del rispetto degli standard qualitativi della merce.

Inoltre, i corrispettivi pagati da PRADA Spa a PRADA S.A. non riguardavano la remunerazione della fabbricazione delle merci licenziate ma del diritto di distribuzione e commercializzazione del prodotto finito successivamente all’importazione poiché venivano corrisposti sulle vendite nette, da cui l’estraneità rispetto al valore in dogana.

Rileva, inoltre, che il Commento n. 11 non è stato riprodotto nel TAXUD/B4/ (2016), derivandone la perdita di validità dei relativi criteri, anche per il principio di retroattività delle disposizioni più favorevoli.

Evidenzia l’irrilevanza del fatto che la licenziante (PRADA S.A.) e la licenziataria (PRADA Spa) appartenessero allo stesso gruppo societario posto che tale condizione non comporta alcun potere della prima sui fornitori tale da obbligarli ad interrompere la vendita dei prodotti alla seconda, assumendo invece rilievo, come affermato da Corte di giustizia, in C-173/15, solo l’eventuale appartenenza, al medesimo gruppo, del licenziante e del produttore.

Nelle conclusioni del ricorso, infine, chiede rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia con riferimento: alle nozioni di controllo di cui all’art. 143, par. 1, lett. e), DAC e di "potere di costrizione o di orientamento"; all’interpretazione dei presupposti per ritenere la "condizione della vendita", ossia se essa debba ritenersi verificata solo quando il fornitore non sia disposto a vendere le merci se non siano versati i diritti di licenza al licenziante da parte del licenziatario;

sull’inutilizzabilità del Commento n. 11, non riprodotto nella versione aggiornata TAXUD.

5.1. Il motivo è in parte infondato, in parte inammissibile.

5.2. Nel merito, va rilevato in primo luogo che la questione è già stata oggetto di ripetuto esame da parte della Corte (v. Cass. n. 8473 del 06/04/2018; Cass. n. 25438 del 12/10/2018; Cass. n. 25647 del 15/10/2018; Cass. n. 11064 del 19/04/2019; Cass. n. 16695 del 21/06/2019; Cass. n. 22761 del 12/09/2019; Cass. n. 33119 del 16/12/2019; Cass. n. 22480 del 16/10/2020 e molte altre), che ha affermato il principio, che questo collegio condivide, secondo il quale «ai fini della determinazione del valore dei prodotti fabbricati in base a modelli o mediante marchi oggetto di contratto di licenza, il corrispettivo dei relativi diritti deve essere aggiunto al valore di transazione, a norma del’art. 32 dei Regolamento dei Consiglio CEE n. 2913 del 1992, come attuato dagli artt. 157, 159 e 160 del Regolamento della Commissione CEE n. 2454 del 1993, qualora il titolare dei diritti immateriali sia dotato di poteri di controllo sulla scelta del produttore e sulla sua attività e sia il destinatario dei corrispettivi dei predetti diritti».

Si è anche precisato, in particolare, che «In tema di dazi doganali, ai fini dell’inclusione dei diritti di licenza (cd. royalties) nel valore doganale delle merci importate incorporanti un marchio commerciale o di fabbrica, il pagamento degli stessi deve costituire condizione necessaria per l’acquisto dei beni e, ove questi siano prodotti da un terzo, deve sussistere un potere di controllo sullo stesso da parte del licenziante/venditore.» (Cass. n. 16695 del 21/06/2019), nonché, in termini articolati, che «In tema di dazi doganali, nella determinazione del valore delle merci in dogana ai sensi del regolamento (CEE) n. 2913 del 1992 (vigente "ratione temporis") e degli artt. 159 e 160 del regolamento n. 2454 del 1993, deve tenersi conto oltre che del valore economico reale della merce importata, anche dei diritti di licenza se alla stessa incorporati, i quali, se riferiti ad un marchio di fabbrica, rilevano quando, sulla base dei rapporti contrattuali tra acquirente e venditore o persona ad esso legata, l’assolvimento del corrispettivo o del diritto di licenza condizioni, per l’importanza rivestita, la stessa volontà di quest’ultimo di procedere alla vendita, mentre, in caso di corresponsione spettante a soggetto diverso dal venditore, deve verificarsi la sussistenza di un legame, diretto o indiretto, tra venditore e licenziante, tale da comportare, sulla base del contenuto specifico delle clausole dell’accordo di licenza, l’esercizio di un controllo, anche indiretto, di quest’ultimo sul primo, secondo gli indicatori tratti dall’esemplificazione presente nel Commento n. 11 del Comitato del codice doganale, contenuto nel TAXUD/800/2002.» (Cass. n. 33119 del 16/12/2019).

5.3. In estrema sintesi, la nozione coinvolta nella fattispecie in giudizio è quella del valore in dogana delle merci importate, che è di regola il valore di transazione, salve, però, le rettifiche da effettuare ex art. 32 CDC: la ratio di sistema della complessiva disciplina, infatti, è quella per cui il valore dichiarato deve riflettere il valore economico reale della merce e, quindi, deve considerare tutti i fattori economicamente rilevanti (CGUE, 20 dicembre 2017, Hamamatsu, in C-529/16).

Anche i diritti di licenza, pertanto, sono destinati ad incidere sulla determinazione del valore doganale qualora i corrispondenti beni immateriali siano incorporati nella merce, così esprimendone o contribuendo ad esprimerne il valore economico: se il prezzo effettivamente pagato o da pagare per le merci importate non ne includa il relativo importo, l’art. 32 CDC stabilisce che al prezzo si addizionano «c) i corrispettivi e i diritti di licenza relativi alle merci da valutare, che il compratore è tenuto a pagare, direttamente o indirettamente, come condizione della vendita delle merci da valutare».

In particolare, questo avviene, ove i diritti non siano già inclusi nel prezzo effettivamente pagato o da pagare, in presenza delle condizioni stabilite dall’art. 157 DAC, ossia:

- siano specificamente riferiti alle merci da valutare;

- l’acquirente sia tenuto a versare i corrispettivi come condizione di vendita delle merci.

Inoltre, nel caso in cui in cui il diritto di licenza si riferisca a un marchio di fabbrica, ossia al diritto d’importare e di commercializzare prodotti riportanti marchi commerciali, l’art. 159 DAC specifica che il relativo importo si aggiunge al prezzo effettivamente pagato o da pagare «soltanto se:

- il corrispettivo o il diritto di licenza si riferisce a merci rivendute tal quali o formanti oggetto unicamente di lavorazioni secondarie successivamente all’importazione,

- le merci sono commercializzate con il marchio di fabbrica, apposto prima o dopo l’importazione, per il quale si paga il corrispettivo o il diritto di licenza, e

- l’acquirente non è libero di ottenere tali merci da altri fornitori non legati al venditore».

Infine, l’art. 160 DAC, per il caso in cui l’acquirente paghi un corrispettivo o un diritto di licenza a un terzo, prescrive che «le condizioni previste dall’articolo 157, paragrafo 2, si considerano soddisfatte solo se il venditore o una persona ad esso legata chiede all’acquirente di effettuare tale pagamento».

5.4. Così ricostruito il quadro normativo deve concludersi, in coerenza con quanto affermato dalla Corte di giustizia con plurime decisioni (v. CGUE, 9 marzo 2017, GE Healthcare, in C-173/15; CGUE, 9 luglio 2020, Direktor ria Teritorialna direktsiya Yugozapadna Agentsiya «Mitnitsi», in C-76/19; CGUE, 19 novembre 2020, 5th AVENUE Products Trading, in C-775/19), che la rettifica prevista dall’articolo 32, par. 1, lett. c), CDC si applica quando ricorrono le seguenti tre condizioni cumulative: in primo luogo, che i corrispettivi o i diritti di licenza non siano stati inclusi nel prezzo effettivamente pagato o da pagare; in secondo luogo, che essi si riferiscano alle merci da valutare; e, in terzo luogo, che l’acquirente sia tenuto a versare tali corrispettivi o diritti di licenza come condizione della vendita delle merci da valutare.

5.5. Con particolare riferimento alla terza condizione, la Corte di giustizia ha affermato che la nozione «condizione di vendita» è realizzata «qualora, nell’ambito dei rapporti contrattuali instaurati tra il venditore, o la persona ad esso collegata, e l’acquirente, tale pagamento rivesta un’importanza tale per il venditore che, in mancanza dello stesso, quest’ultimo non procederebbe alla vendita».

Ha, quindi, aggiunto, che qualora il beneficiario delle royalties sia soggetto diverso dal venditore, occorre «verificare se la persona legata al venditore eserciti un controllo, sul medesimo o sull’acquirente, tale da poter garantire che l’importazione delle merci, assoggettate al suo diritto di licenza, sia subordinata al versamento, a suo favore, del corrispettivo o del diritto di licenza ad esse afferente», in coerenza con Kart. 160 DAC.

In altri termini, i corrispettivi e i diritti di licenza (royalties) dovuti dall’importatore in relazione alle merci importate costituiscono una «condizione della vendita», ai fini della rilevanza quale componente del valore della merce in dogana di cui all’art. 32 CDC, non solo quando l’operazione è subordinata espressamente, nelle clausole dell’accordo di licenza, all’assolvimento di tali pagamenti, ma anche quando tale rapporto di subordinazione si evince dal tenore delle clausole contrattuali riferite o che interessano anche soggetti diversi che possono intervenire nell’operazione medesima, ove il venditore sia soggetto diverso dal beneficiario delle royalties.

5.6. Quanto alla nozione di "controllo", va rilevato che l’allegato 23 delle DAC - Note interpretative in materia di valore in dogana all’articolo 143, comma 1, lett. e (a norma del quale due o più persone sono considerate legate se l’una controlla direttamente o indirettamente l’altra) stabilisce che «si considera che una persona ne controlli un’altra quando la prima sia in grado di esercitare, di diritto o di fatto, un potere di costrizione o di orientamento sulla seconda».

Il controllo è dunque inteso in un’accezione ampia: da un lato, sul piano della fattispecie, perché è assunto per la sua rilevanza anche di fatto, dall’altro, su quello degli effetti, perché ci si contenta dell’effetto di "orientamento" del soggetto controllato.

Quest’accezione ampia e necessariamente casistica, d’altronde, ben si coordina con la nozione economica del valore doganale, la quale si traduce nel rilievo, anch’esso di fatto, degli elementi che definiscono il valore economico del bene.

Giova precisare che l’affermazione della Corte di giustizia è di valenza generale, senza che rilevi che, nella vicenda in concreto esaminata in C-173/15, fossero il produttore e il licenziante ad appartenere al medesimo gruppo societario: rientrano, infatti, nell’alveo della fattispecie, tutte le situazioni, anche tra soggetti non necessariamente appartenenti al medesimo gruppo societario, purché ricorrano, in concreto (come, nella specie, accertato in fatto dalla CTR), i presupposti previsti dalla disciplina sopra illustrata

La Corte di giustizia, del resto, ha fornito utili indicazioni richiamando, in primo luogo, il punto 13 del Commento n. 3 (sezione in dogana), dove, tra l’altro, è precisato «quando le merci vengono acquistate da una persona e il corrispettivo oppure il diritto di licenza viene pagato ad un’altra, il pagamento può essere considerato nondimeno una condizione di vendita delle merci (...). Si può considerare che il venditore o una persona a lui legata abbiano chiesto all’acquirente di effettuare il pagamento quando, ad esempio, in un gruppo multinazionale le merci vengono acquistate da un membro del gruppo e il corrispettivo deve essere versato ad un altro membro dello stesso gruppo. È da considerare uguale il caso in cui il venditore sia il beneficiario di una licenza del destinatario del corrispettivo il quale, a sua volta, controlla le condizioni di vendita» (v. CGUE, GE Healthcare, punto 70).

Ha poi richiamato, quali utili indicatori, quelli contenuti nel Commento n. 11 del Comitato del codice doganale (Sezione del valore in dogana) TAXUD/800/2002, relativo all’applicazione dell’art. 32, paragrafo 1, lettera c), CDC, precisando che, «sebbene non giuridicamente cogenti, costituiscono tuttavia strumenti importanti per garantire un’uniforme applicazione del codice doganale da parte delle autorità doganali degli Stati membri e possono, quindi, essere di per sé considerate strumenti validi per l’interpretazione di detto codice» (CGUE, C-173/15, punto 45), specificazione recentemente ribadita con la sentenza 9 luglio 2020, in C-76/19, punto 68.

5.7. Orbene, come emerge dall’ampia e articolata motivazione della decisione impugnata, la CTR si è attenuta ai sopra esposti principi posto che ha accertato:

a) i diritti di licenza non erano inclusi nel prezzo effettivamente pagato;

b) detti diritti si riferivano alle merci da valutare;

c) il pagamento dei diritti costituiva condizione della vendita.

Con riguardo a quest’ultimo punto, in particolare, la CTR ha considerato che:

- tra licenziante e licenziatario vi era una sostanziale identità atteso che appartenevano al medesimo gruppo e il primo controllava nella misura del 100% il secondo («abbiamo un unico soggetto che possiede i diritti di licenza e che vende i prodotti fabbricati sulla scorta delle specifiche tecniche che esprimono il valore che giustifica il marchio. Questo soggetto per avere vantaggi fiscali ha creato una società di diritto lussemburghese cui ha attribuito i diritti di licenza prevedendo che il pagamento debba avvenire all’esito della vendita e non della produzione»), circostanza che determinava un pieno controllo sugli stessi fornitori;

- dalle condizioni contrattuali, inoltre, si evinceva che rispetto ai fornitori il controllo non era meramente qualitativo ma sostanziale e pregnante («per quanto riguarda la vicenda in esame il contratto di licenza contiene clausole che consentono al licenziante di controllare la produzione e/o la vendita tra produttore ed importatore» «nel caso di specie sono presenti molti degli indicatori indicati dal Comitato nel commento nr. 11 e sopra elencati: il licenziante, in pieno accordo con acquirente del prodotto che dal punto di vista societario è il suo controllore, esercita, direttamente od indirettamente, un controllo di fatto sulla produzione, sulla logistica e sulla consegna delle merci all’acquirente, le merci sono fabbricate su specifiche del licenziante che definisce altresì caratteristiche delle merci e la tecnologia utilizzata e fissa le condizioni di prezzo al quale il produttore/venditore vende le proprie merci»-, v. anche pag. 8 della parte in fatto della sentenza, ove sono indicate le diverse clausole, che contemplano, tra l’altro, il potere della licenziante di conoscere e approvare i nominativi dei fornitori e dei produttori, nonché di intervenire sulla fissazione delle condizioni dei prezzi di vendita e rivendita vuoi del produttore vuoi dell’acquirente), si da concludere che la società «fa produrre sotto dettatura i beni in paesi extracomunitari per poi importara nei paesi ove dispone di una rete di vendita».

Contrariamente a quanto sostenuto in ricorso, quindi, la CTR non ha omesso di considerare le condizioni di cui all’art. 159 DAC ma le ha ritenute integrate alla luce dei plurimi elementi di fatto, che, tra l’altro, generavano un vincolo univoco e non alterabile (produzione "sotto dettatura") nei rapporti trilaterali in questione.

La CTR ha altresì considerato la circostanza che i diritti erano riscossi sui beni commercializzati, reputandola non rilevante ai fini della determinazione del valore in dogana poiché «il bene che arriva in Italia incorpora già in sé il valore ulteriore derivante dall’esistenza del marchio e il fatto che il pagamento dei diritti avviene all’esito della vendita è una clausola stabilita all’interno del gruppo per convenienza fiscale perché diventa un costo per la controllante e un ricavo per la controllata che pagherà le favorevoli imposte sui redditi del Lussemburgo»; e, del resto, la circostanza dedotta è in sé inidonea ad escludere che il pagamento dei suddetti corrispettivi non costituisse una condizione della vendita.

5.8. Ne deriva l’inammissibilità della censura ove diretta a contestare l’apprezzamento degli elementi in fatto operata dalla CTR, mentre è infondata nel resto.

5.9. Vanno infine disattese le richieste di rinvio pregiudiziale.

Con riguardo alle prime due questioni - sulle nozioni di controllo indiretto e di "potere di costrizione o di orientamento", nonché sulla interpretazione della "condizione della vendita", da intendere solo quando il fornitore non sia disposto a vendere le merci se non siano versati i diritti di licenza al licenziante da parte del licenziatario - il profilo, a fronte dell’accertamento in fatto operato dalla CTR, difetta di rilevanza per la pregnanza del controllo individuato e l’intensità del vincolo che avvolgeva i fornitori.

La Corte di giustizia, del resto, come sopra evidenziato, ha ribadito anche recentemente i principi in questione e l’utile ricorso, come operato dal giudice di merito, agli indicatori di cui al Commento 11 (sezione valore in dogana) (v. da ultimo, CGUE, sentenza 9 luglio 2020, in C-76/19, punti 66-68), da cui l’insussistenza dei presupposti per un nuovo rinvio ex art. 267 TFUE.

Ciò toglie rilevanza anche all’ultimo quesito, posto che proprio con la decisione appena citata - in vicenda all’attenzione della Corte di giustizia in epoca chiaramente successiva alla modifica operata nel 2016 - la Corte ha riconosciuto la piena validità e rilevanza del Commento n. 11, neppure ponendosi, a maggior ragione, un profilo di ius superveniens, nozione estranea rispetto all’utilizzazione dei suddetti indicatori.

6. Il quinto motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., violazione degli artt. 1362, 1363, 1371 e 1372 c.c. in relazione alla interpretazione delle clausole contrattuali operata dalla CTR.

6.1. Il motivo è inammissibile per plurime ragioni.

In primo luogo, la censura è formulata in violazione dei principi di specificità e localizzazione, neppure avendo precisato quali clausole sarebbero state oggetto di una interpretazione non congrua ovvero rispetto a quali altre clausole l’esegesi della CTR sarebbe stata lesiva dei principi invocati, assente ogni indicazione, anche solo indiretta, agli atti stessi e a dove e quando gli stessi (o le specifiche clausole) sarebbero stati sottoposti all’esame del giudice d’appello.

Né soccorre il riferimento a due punti dell’atto di controdeduzioni che contengono mere generiche deduzioni, neppure inclusive delle asserite clausole, e si risolvono nella prospettazione di una diversa interpretazione.

Inoltre, la censura è ulteriormente carente posto che, ove sia denunciata l’errata applicazione dei canoni ermeneutici, la sua formulazione non può risolversi nell’astratto riferimento alle regole legali di interpretazione, dovendo essere specificamente precisati i canoni in concreto violati, con la precisazione del modo e con quali considerazioni il giudice di merito se ne sia discostato, connotazioni qui invece del tutto assenti. Il sindacato di questa Corte, del resto, non può investire il risultato interpretativo in sé, che spetta al giudice di merito, a cui è esclusivamente riservata l’indagine ermeneutica.

Ne deriva che la doglianza attinge esclusivamente la motivazione del giudice d’appello, da cui una ulteriore ragione di inammissibilità.

7. Il sesto motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 70 D.P.R. n. 633 del 1972 per non aver la CTR ritenuto illegittima la pretesa sull’Iva nonostante l’imposta fosse stata assolta con la modalità del reverse charge, da cui una duplicazione dell’imposta.

Deduce, inoltre, l’erroneità dell’affermazione per cui le autofatture prodotte non consentivano di stabilire con certezza la riconducibilità del pagamento alle merci oggetto delle operazioni doganali, posto che, in effetti, queste, in linea con la prospettazione della non daziabilità delle royalties, si riferivano alle merci successivamente rivendute ma erano ugualmente riferibili ai beni importati.

7.1. Il motivo è complessivamente inammissibile.

7.2. La CTR ha fondato la sua decisione su due rationes:

a) le fatture «non sono di per sé sufficienti a provare gli avvenuti pagamenti dell’Iva dovuta in relazione all’operazione di importazione in contestazione» poiché «ha fornito delle fatture riepilogative che non consentono di stabilire con certezza la loro riconducibilità alle merci oggetto delle operazioni doganali contestate»;

b) per la «diversità del regime tra riva all’importazione e quella interna e la non coincidenza degli importi».

7.3. Entrambe le rationes sono state aggredite dalla censura.

La prima, peraltro, resiste alla doglianza: la CTR ha accertato in fatto la non corrispondenza tra le autofatture (riepilogative) e quanto dovuto per i beni importati, da cui l’impossibilità di stabilire con certezza la riconducibilità delle stesse alle merci in questione.

Era onere dell’importatore, infatti, provare, in punto di fatto e con richiamo alle specifiche dichiarazioni doganali interessate, la corrispondenza e la pertinenza dell’Iva autofatturata alla maggiore imposta dovuta all’importazione per effetto dell’inclusione delle royalties nel valore in dogana (v. sul punto Cass. n. 8473/2018), prova che, nella specie, non è stata fornita.

Non è invece pertinente che la prospettazione della ricorrente si fondasse su una asserita non daziabilità delle royalties, trattandosi di prospettazione non solo infondata ma neppure rilevante rispetto alla prova della corrispondenza tra beni in autofattura e beni importati.

La doglianza, dunque, in parte qua, neppure attinge l’effettiva ratio della decisione.

7.4. La censura sulla seconda ratio è, per l’effetto, inammissibile in quanto inidonea, anche nell’ipotesi di sua fondatezza, a modificare la statuizione del giudice di merito.

8. Il settimo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 220, par. 2, CDC per aver la CTR escluso che l’errore dell’Autorità doganale, che non aveva sollevato alcuna obiezione rispetto alle importazioni avvenute, alle medesime condizioni, nel 2009, determinasse lo sgravio dei maggiori dazi pretesi.

Deduce, inoltre, di aver presentato, anteriormente alla notifica degli avvisi, interpello sulla daziabilità delle royalties, segno della propria buona fede; la richiesta, peraltro, era rimasta senza risposta, da cui la configurabilità di un ulteriore errore dell’Autorità doganale per l’omessa indicazione della soluzione interpretativa.

8.1. Il motivo è infondato.

8.2. L’art. 220, par. 2, lett. b, CDC, prevede che le autorità competenti non procedono alla contabilizzazione a posteriori dei dazi all’importazione solo qualora ricorrano tre condizioni cumulative, ossia che: i dazi non siano stati riscossi a causa di un errore delle autorità competenti stesse; l’errore commesso da queste ultime sia stato di natura tale da non poter essere ragionevolmente rilevato da un debitore in buona fede; quest’ultimo abbia rispettato tutte le prescrizioni della normativa in vigore relative alla sua dichiarazione in dogana.

La Corte di giustizia è costante nell’affermare la necessaria ricorrenza di tutte e tre le condizioni, affermazione che integra un orientamento da lungo tempo assolutamente consolidato (v. Corte di Giustizia, sentenza 12 luglio 1989, Binder, in C-161/88, punti 15 e 16; sentenza 14 maggio 1996, Fame Seafood e a., in C-153/94 eC-204/94, punto 83; sentenza 18 ottobre 2007, Agrover Srl, in C-173/06, punto 30; sentenza 17 dicembre 2014, Balde Agro ASr in C-3/13, punto 35; sentenza 26 ottobre 2017, «Aqua Pro» SIA, in C-407/16) e stabilmente seguito dalla Corte di cassazione (v. Cass. n. 6131 del 01/03/2019; Cass. n. 7775 del 20/03/2019; Cass. n. 33314 del 17/12/2019; Cass. n. 12766 del 26/06/2020).

8.3. Va rilevato, in secondo luogo, che, contrariamente a quanto sostenuto in ricorso, la Corte di giustizia ha precisato che l’errore che assume rilievo a tali fini è "l’errore attivo", ossia in conseguenza di un facere dell’Amministrazione (v. Corte di giustizia, sentenza 10 dicembre 2015, Valsts iegèmumu dienests, in C-427/14, punto 44, ove si afferma «secondo costante giurisprudenza della Corte, il legittimo affidamento del debitore merita la tutela conferita da tale disposizione solo se sono state le autorità competenti «medesime» a porre in essere i presupposti sui quali riposava detto affidamento. Così, solo gli errori imputabili a un comportamento attivo delle autorità competenti danno diritto a che i dazi doganali non vengano recuperati a posteriori (v., in tal senso, sentenze Mecanarte, C-348/89, EU:C. 1991:278, punti 19 e 23, nonché Agrover, C-173/06, EU:C:2007:612, punto 31)».

8.4. Orbene, nella vicenda in giudizio - come rilevato dalla CTR - nessun errore attivo è imputabile all’Amministrazione doganale, né con riferimento alla mancata attivazione dei controlli per l’anno 2009 (essendo fisiologico, per non rallentare i traffici internazionali, che la verifica avvenga in via diretta a campione e solo successivamente sia attivata la procedura di contabilizzazione a posteriori), né con riguardo alla mancata risposta all’interpello, tra l’altro presentato a verifica già in corso, sicché la relativa istanza neppure assume incidenza ai fini del requisito della buona fede.

9. L’ottavo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 10, comma 2,1. n. 212 del 2000.

9.1. Il motivo è infondato.

È dirimente che non sussistono, per le ragioni appena esposte, i presupposti di fatto per l’applicazione dell’invocata disposizione.

A ciò si può aggiungere che la norma - secondo i consolidati principi di questa Corte - trova applicazione, come affermato dalla CTR, ai soli fini dell’esenzione delle sanzioni e degli interessi (v. Cass. n. 20819 del 30/09/2020 e Cass. n. 370 del 09/01/2019, con ampi riferimenti alla giurisprudenza europea in materia di tributi armonizzati; sempre con riferimento all’esclusione delle sole sanzioni, si vedano ancora Cass. n. 10499 del 03/05/2018; Cass. n. 12635 del 08/02/2017; Cass. n. 5934 del 25/03/2015; Cass. n. 16692 del 03/07/2013; Cass. n. 21070 del 13/10/2011; Cass. n. 19479 del 10/09/2009).

10. Il ricorso va pertanto rigettato.

Le spese sono regolate per soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo.



P.Q.M.
 

La Corte rigetta il ricorso. Condanna CAD Sernav Toscana Srl al pagamento delle spese processuali a favore dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli che liquida in complessivi Euro 6.000,00, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1 -bis dello stesso art. 13, se dovuto.


Così deciso in Roma, il 7 marzo 2023.

Depositato in Cancelleria il 7 giugno 2023