• Diritti d'autore e diritti connessi - Aspetti generali

28 maggio 2020

Corte d'Appello Torino 28/05/2020 [Diritti d'autore - Illiceità della condotta del convenuto consistente nella registrazione sotto pseudonimo e nel caricamento su piattaforma digitale, in qualità di dipendente di società, di files coperti da copyright]

Diritti d'autore e diritti connessi - Illiceità della condotta del convenuto consistente nella registrazione sotto pseudonimo e nel caricamento su piattaforma digitale, in qualità di dipendente di una società, di files coperti da copyright - Danno economico e di immagine - Violazione del servizio di hosting provider, dei termini e delle condizioni del servizio stesso, che impegnano l'utente a non usare tale mezzo per finalità illecite - Esclusione della responsabilità del dipendente per avere agito su indicazione e con l'autorizzazione del titolare del diritto d'autore - Assenza di violazione della legge che tutela il copyright.

SENTENZA

 

pubbl. n. 28/05/2020

(Presidente relatore: dott.ssa Emanuela Germano Cortese)

 

nella causa civile, iscritta al R.G. 891/2019, promossa in grado d'appello da

D. SA, P. IVA (...), con sede in 140, boulevard M., 75017, P., F., in persona della dott.ssa L.M., nella sua qualità di legale rappresentante e procuratore, rappresentata e difesa, in virtù di procura generale ad lites in data 17 dicembre 2012 (doc. A fasc. D. I grado), dagli avvocati Giovanni Galimberti e Daniele De Angelis di Milano, nonché dall'avvocato Sabrina Travet di Torino, in virtù di delega allegata all'atto di costituzione di nuovo difensore del 3 ottobre 2017, ed elettivamente domiciliata presso lo Studio di quest'ultima in Torino, via Madama Cristina n. 90;

- appellante -

contro

E.A., (...), rappresentato e difeso dall'Avv. Paolo Virano ed elettivamente domiciliato in Torino, via Argonne n. 1 presso lo studio Frignani Virano e associati, giusta procura in calce alla comparsa di costituzione e risposta del 12.4.2017;

- appellata -

e

D.T.P. S.R.L., codice fiscale e numero di iscrizione al Registro delle Imprese di Torino (...), in persona dell'Amministratore Unico e legale rappresentante signora P.B., rappresentata e difesa dal Prof. Avv. Luigi Paolo Comoglio (...), elettivamente domiciliata in Vercelli, via Galileo Ferraris, n. 90, come da procura allegata in via telematica;

- appellata -

 

FATTI DI CAUSA

 

Il Giudizio di primo grado.

D. SA conveniva in giudizio avanti al Tribunale di Torino, Sezione Specializzata in materia di Impresa, il sig. E.A., con atto di citazione notificato in data 17.01.2017, chiedendo l'accertamento della illiceità della condotta del convenuto, consistente nella registrazione sotto pseudonimo e nel caricamento sulla piattaforma D., quale dipendente di D.T.P. S.r.l., di files che egli sapeva essere coperti da copyright. Riteneva, in particolare, che il sig. A. avesse causato con la propria condotta un rilevante danno, economico e di immagine, per D., violando inoltre, in quanto utente con disponibilità del servizio di hosting provider, i termini e le condizioni del servizio stesso, che impegnano l'utente a non usare tale mezzo per finalità illecite.

Indicava il titolo della domanda nella violazione della legge sul diritto d'autore e degli obblighi contrattuali assunti con l'accettazione delle condizioni di uso della piattaforma, richiedendo quindi la condanna a rifondere i danni patrimoniali e non patrimoniali patiti da parte attrice, quantificati in Euro 3.000.000,00, liquidabili anche in via equitativa, oltre le spese di lite.

D. SA esponeva di essere società di diritto francese, titolare e gestore di una piattaforma online per la condivisione di prodotti audiovisivi che consente agli utilizzatori di caricare, conservare, comunicare al pubblico e condividere prodotti audiovisivi a seguito di registrazione.

D.T.P. S.r.l., a sua volta, operava nel campo dell'edizione, produzione, noleggio, distribuzione, compravendita e commercializzazione di programmi audiovisivi e televisivi, acquistando diritti di sfruttamento delle edizioni originali di telenovelas di produzione sudamericana e provvedendo al loro doppiaggio, nonché concedendo in licenza ad emittenti televisive i diritti ad essa spettanti sulle edizioni italiane delle telenovelas doppiate.

Il presente giudizio trovava origine nella controversia sorta tra D. e D. nel 2015: in particolare, D. depositava presso il Tribunale di Torino, in data 04.05.2015, ricorso ex artt. 700 c.p.c. e 156 L. n. 633 del 1941, chiedendo di inibire a D. la trasmissione, diffusione, messa a disposizione del pubblico, o comunque l'utilizzo di materiali audiovisivi delle opere di cui D. era titolare, e in ogni caso di ordinare la rimozione e cancellazione dalla piattaforma dei materiali audiovisivi caricati in violazione dei diritti della ricorrente, insieme con l'inibizione dell'accesso agli stessi materiali. Domandava inoltre di fissare una penale di Euro 1.000,00, per ogni audiovisivo e per ogni giorno di ritardo di D. nell'ottemperare all'ordine del giudice. Tali domande "erano estese anche ai materiali compresi nella sezione "privata" oltre che "pubblica" degli utenti e ai materiali che, anche attraverso l'adeguato uso di misure tecniche quali il cit. fingerprinting, fossero riconoscibili come corrispondenti, in tutto o in parte, a quelli già caricati e specificamente segnalati da D.".

Le domande di D. venivano accolte con ordinanza del 03.06.2015.

A seguito del reclamo di D., il Tribunale di Torino riformava parzialmente la suddetta ordinanza, con ordinanza collegiale 19.10.2015, in relazione al secondo punto del dispositivo, confermando comunque l'inibitoria e l'ordine di rimozione e impedimento di eventuali futuri caricamenti a carico di D., circa i contenuti segnalati da D. con indicazione del relativo URL, e mantenendo il resto del provvedimento reclamato, compresa la penale.

In data 08.02.2016, D. notificava a D. un atto di precetto, quantificando in Euro 924.000,00 le penali maturate per inottemperanza alle ordinanze 03.06.2015 e 19.10.2015, intimandone il pagamento.

D. proponeva quindi opposizione al precetto, avanti al Tribunale di Torino, Sezione specializzata per l'impresa, con citazione notificata in data 11.03.2016, chiedendo la sospensione dell'efficacia esecutiva del titolo, con accertamento nel merito dell'inesistenza di qualsivoglia diritto di D., e, in via subordinata, la rideterminazione dell'ammontare della penale fissata nell'ordinanza, insieme con la liquidazione dell'eventuale danno secondo equità.

In particolare, D. evidenziava che i file in questione appartenevano ad un utente denominato "A.U.", ossia, per stessa ammissione di D., un suo dipendente (il sig. A.), che, consapevolmente, aveva caricato file audiovisivi sulla piattaforma di D., al fine di supportare il ricorso cautelare avversario. Riportava, in particolare, che "prima della notificazione dell'atto di precetto, D. non ha mai contestato a D. la pretesa inosservanza della ordinanza del 19 ottobre 2015. Ha tuttavia portato avanti preordinatamente una non meglio precisata "acquisizione forense della pubblicazione" dei file contenenti i frammenti audiovisivi incriminati, il tutto al solo fine di alimentare il contatore oscuro delle penali implementato da controparte. Come la stessa D. ben sa, se invece avesse voluto ottenere la rimozione degli 11 file sarebbe stato sufficiente inviare una comunicazione a D. con specifica indicazione delle URLs dei file da rimuovere, ciò che peraltro le è espressamente richiesto per legge e le è stato imposto con le ordinanze cautelari. .. Ed invece no. Nulla di tutto ciò. Abusando di una posizione giuridica attribuitagli da un ordine di un giudice, D., ha preferito individuare alcuni file, alcuni di essi caricati da lei per il tramite di un suo dipendente, non ha mai contestato nulla, ha così applicato il contatore oscuro delle penali attendendo silente il passare del tempo, e quando (bontà sua) ha ritenuto di aver raggiunto un ammontare soddisfacente .. ha pensato bene di notificare un precetto", tutto ciò dunque con assenza di buona fede da parte di D., ma con lo scopo di determinare il sorgere e l'aggravamento del preteso credito.

Con riguardo all'attuale procedimento, Il sig. E.A. si costituiva in data 12.04.2017, resistendo alla domanda e contestando l'esistenza e la pretesa illiceità di ogni addebito a lui mosso e proponendo domanda riconvenzionale per lo stato di ansia e tensione ingenerato dalla richiesta temeraria di risarcimento dei danni: chiedeva altresì l'autorizzazione alla chiamata in causa di D. al fine di essere manlevato in caso di soccombenza, con vittoria di spese di lite.

Veniva autorizzata la domanda in manleva e la causa rinviata all'udienza del 13.09.2017, si costituiva D.T.P. S.r.l., aderendo alle domande di A., sollecitando il rigetto delle domande proposte dall'attrice, l'accoglimento della domanda riconvenzionale e rimettendosi sulla domanda di manleva, con richiesta conclusiva di condanna della parte attrice per lite temeraria.

Fissata udienza di precisazione delle conclusioni, sopravveniva la decisione del Tribunale di Torino, con sentenza n. 342 del 24.01.2018, in merito alla causa di opposizione al precetto, proposta da D. nei confronti di D., che accoglieva l'opposizione, dichiarando l'inefficacia e l'invalidità del precetto, notificato da D. a D. in data 08.02.2016, come di ogni atto esecutivo successivo al medesimo, attesa l'inesistenza del diritto di D. a procedere ad esecuzione forzata. Veniva quindi rigettata la domanda della convenuta D. di fissazione di penale ex art. 156 l.d.a. e revocata la penale prevista con l'ordinanza cautelare del 03.06.2015; nel contempo, il Tribunale condannava altresì l'attrice D. a corrispondere a D. la somma di Euro 20.000,00 a titolo di risarcimento, oltre agli interessi legali dalla data della sentenza all'effettivo saldo, rigettando le ulteriori domande e compensando tra le parti le spese processuali.

Il Tribunale di Torino, Sezione Specializzata in materia di Impresa, con sentenza n. 1576/2019, in data 01.04.2019, dichiarava la non fondatezza della domanda avanzata da D. relativamente alla sospensione, ex art. 295 c.p.c., del giudizio di primo grado fino al passaggio in giudicato della causa di opposizione, evidenziando come i titoli di responsabilità fatti valere nei confronti del sig. A. e di D. fossero differenti ed autonomi tra loro con riguardo alle rispettive condotte: nel primo caso, infatti, il sig. A. veniva chiamato a rispondere per aver caricato materiali che sapeva coperti da copyright, mentre nel secondo caso D. era ritenuta responsabile per aver permesso la reiterata violazione del copyright, laddove non aveva attivato efficaci misure volte ad ottemperare alle ordinanze cautelari del Tribunale.

I giudici di primo grado sottolineavano che la decisione resa nella causa tra D. e D., anche se coperta dal giudicato, non poteva avere alcun effetto in danno del sig. A., laddove quest'ultimo era terzo estraneo al giudizio.

Posto che il caricamento dei materiali dovesse essere imputato allo stesso sig. A., in quanto questi non aveva offerto prova del contrario, riteneva il Tribunale che la domanda di D. fosse manifestamente infondata, se non temeraria, "poiché il caricamento dei materiali audiovisivi è avvenuto lecitamente, col consenso dell'avente diritto D., e al fine - noto al convenuto e certamente lecito - di monitorare le funzionalità della piattaforma D., in particolare l'attitudine dei dispositivi di fingerprinting a riconoscere materiali già caricati e rimossi per violazione di copyright".

Riteneva ancora il Collegio che il caricamento di dati non potesse risultare illecito e dunque fondare pretese risarcitorie esorbitanti, essendo quanto riportato avvenuto con il consenso del titolare del copyright, e in conformità con le condizioni d'uso della piattaforma: il sig. A. aveva effettivamente operato con l'autorizzazione del titolare dei diritti di sfruttamento delle serie tv, ossia D., e nel pieno rispetto delle condizioni d'uso stabilite da D..

Quanto alla liceità del caricamento dei materiali audiovisivi, essendo stata questa accordata fin dall'inizio da parte dell'avente diritto, deduceva il Tribunale l'inesistenza di un plausibile eventus damni e quindi di un ulteriore elemento della fattispecie di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c.. Richiamava il Collegio la sentenza n. 342 del 24.01.2018, ritenendo che il consenso dell'avente diritto, manifestato espressamente e per iscritto, al caricamento del materiale audiovisivo oggetto di copyright sulla piattaforma D., sia pure ai soli fini di prova, escludesse la violazione stessa del diritto, non consentendo la maturazione della penale prevista nel provvedimento cautelare.

Relativamente al danno all'immagine e reputazionale, richiesto da D., pari a Euro 3.000.000,00, il Collegio riteneva la domanda posta in termini sostanzialmente generici, così come non avvalorata dall'indicazione di episodi a sostegno della posizione dell'attrice: in tal senso, considerava la richiesta di danno, proposta nei confronti del convenuto A. per l'intervista rilasciata dal patron di D., sig. B., maldestra e temeraria, non potendo il convenuto rispondere per i contenuti di un'intervista da lui non rilasciata. Non sussisteva, secondo il Collegio, alcun evidente nesso di causalità materiale tra la condotta del convenuto, consistente nell'upload dei files coperti dal diritto d'autore, e il preteso eventus damni, relativo al pregiudizio arrecato dall'intervista all'immagine e alla reputazione commerciale della parte attrice.

Il Tribunale trattava congiuntamente i punti sulla rifusione delle spese legali, sostenute nella causa di opposizione al precetto n. 5135/16, e sul lucro cessante per l'indisponibilità della somma che D., mettendo in esecuzione l'ordinanza cautelare del 03.06.2015, aveva pignorato e ottenuto in pagamento per un importo largamente superiore a quello poi effettivamente riconosciuto in sentenza, giacché entrambe le domande poste dall'attrice tentavano di riversare su un terzo estraneo i costi del processo contro D. e i danni subiti, come pretesi, per l'indisponibilità della somma ingiustamente pignorata da D.. Anche in questo caso, i giudici di primo grado ritenevano manifestamente infondate, se non temerarie, le pretese avanzate da D., reputando, peraltro, la pretesa dell'attrice basata su un'evidente distorsione del nesso di causalità materiale.

Sosteneva infatti il Tribunale, in primo luogo, che, seguendo il dettato normativo dell'art. 91 c.p.c., la pretesa al rimborso delle spese, basata sul titolo della soccombenza, non poteva essere fatta valere nei confronti di un soggetto, ossia il sig. A., che non era parte del giudizio parallelo.

Richiamava quindi il giudice di primo grado come l'attrice D. non potesse far valere in un giudizio separato ed autonomo la sua pretesa alla rifusione delle spese di lite, giacché la competenza sulla domanda risarcitoria avrebbe potuto essere esercitata solo con il provvedimento che definisce il giudizio. Ingiustificata, inoltre, risultava la citata pretesa, ancor più se rivolta nei confronti di un terzo, estraneo al giudizio.

Rilevava il Tribunale, in secondo luogo, come nemmeno i profili di cui all'art. 96 c.p.c. trovassero applicazione al caso di specie, giacché la condotta del sig. A. circa l'upload dei file doveva ritenersi lecita, e, inoltre, non sussisteva alcun nesso di causalità materiale tra il citato upload dei file e l'utilizzo processuale fattone da D. nel procedimento parallelo.

Considerava ulteriormente il giudice di primo grado che nemmeno il conteggio operato da D. delle penali sui file caricati con il suo consenso poteva essere correlato con la condotta del sig. A., laddove il modus agendi che aveva riguardato le penali rappresentava una scelta processuale solamente riconducibile a D..

Non solo, dunque, la domanda ex art. 96 c.p.c. non poteva riguardare il sig. A., poiché soggetto terzo rispetto al procedimento parallelo, ma anche vi era da rilevare che la stessa domanda ex art. 96 c.p.c., formulata da D. contro D. nel processo parallelo, era stata respinta con la sentenza n. 342/2018.

Tale constatazione escludeva dunque la possibilità che il vantato danno potesse essere preteso nei confronti di un terzo estraneo, quale, appunto, il sig. A..

Riteneva quindi il Tribunale che, in punto spese, non vi fossero ragioni per discostarsi dalla regola della soccombenza, ponendo a carico della parte attrice le spese del convenuto, sig. E.A..

La nota spese presentata dal sig. A. chiedeva una ulteriore maggiorazione del 30% per la redazione di atti telematici, istanza parzialmente fondata secondo il giudice di primo grado.

Richiamava infatti l'art. 4, comma I-bis, del D.M. 10 marzo 2014, n. 55, secondo cui "il compenso determinato tenuto conto dei parametri generali di cui al comma I è di regola ulteriormente aumentato del 30 per cento quando gli atti depositati con modalità telematiche sono redatti con tecniche informatiche idonee ad agevolarne la consultazione o la fruizione e, in particolare, quando esse consentono la ricerca testuale all'interno dell'atto e dei documenti allegati, nonché la navigazione all'interno dell'atto".

Nondimeno, osservava il Collegio che il solo atto recante un sommario con collegamenti ipertestuali interni era la conclusionale, e non era assicurata neppure in quella sede la navigabilità tra atti e documenti, riconoscendo, dunque, una maggiorazione del 20% sull'onorario liquidato per la fase decisoria, pari a Euro 2.400,00.

Riteneva il Tribunale inoltre ricorrenti i presupposti per la concessione, a favore dello stesso convenuto, del risarcimento del danno per temerarietà della lite a carico di D., giacché quest'ultima aveva agito in malafede. L'insieme dei disagi, patiti dal convenuto sig. A., per essere stato temerariamente citato in giudizio, era direttamente collegato al valore della causa e alla durata e impegno del processo.

Specificava sul punto il giudice di primo grado come il sig. A. avesse richiesto al Tribunale sia di accertare e dichiarare che egli aveva subito un danno a causa dei fatti riportati in atti, con domanda di condanna di D. al pagamento di una somma di denaro, eventualmente liquidata equitativamente, oltre ad interessi e rivalutazione monetaria, sia di accertare il danno da lui subito a causa dell'azione esercitata da D. in mala fede o colpa grave (art. 96 c.p.c.), con conseguente condanna di D. al pagamento di una somma di danaro, anche in questo caso eventualmente liquidata in via equitativa, oltre ad interessi e rivalutazione monetaria.

Riteneva dunque il giudice di primo grado che le due domande fossero in realtà una sola, riconducibile alla norma di cui all'art. 96 c.p.c..

Richiamava quindi il Collegio la sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione del 13.09.2018, n. 22405, secondo la quale la condanna al pagamento della somma equitativamente determinata ai sensi dell'art. 96, comma III, c.p.c. non richiede la prova del danno, ossia di uno specifico eventus damni e delle conseguenze dannose che ne sono derivate, essendo tuttavia necessario l'accertamento, in capo alla parte soccombente, della mala fede o della colpa grave.

D., secondo il Collegio, aveva agito in giudizio in malafede, in primo luogo per aver citato il sig. A. per un illecito che sapeva inesistente, in secondo luogo per aver preteso dal convenuto, come danno di immagine, l'esorbitante cifra di tre milioni di Euro per un'intervista da lui non rilasciata, in spregio a qualunque criterio giuridico di imputazione dell'illecito e di nesso causale, e, in ultimo, per aver agito contro il sig. A. con l'intento di colpire tortuosamente e indirettamente D., confidando che il dipendente chiamasse in causa il datore di lavoro.

Il Tribunale liquidava dunque in via equitativa il danno per temerarietà della lite, tenendo in debito conto l'insieme dei disagi patiti dal sig. A. per essere stato temerariamente convenuto in giudizio, con riguardo al valore della causa, alla durata e all'impegno del processo.

Tali grandezze venivano compendiate dalle tabelle per la liquidazione degli onorari di avvocato, indicanti per ogni valore di causa una forbice di minimi e massimi, entro cui può essere liquidato il compenso spettante al difensore della parte vittoriosa, e quindi, conseguentemente, il danno ex art. 96 c.p.c..

Il Tribunale liquidava quindi la somma di Euro 24.000,00, pari ai due terzi delle spese, sottolineando nondimeno come su tale ammontare non spettassero gli accessori previsti per le spese di lite, in quanto credito di tipo risarcitorio.

Quanto alle spese della terza chiamata, secondo il principio di causalità, sostenevano i giudici che queste dovessero essere poste a carico della parte attrice, la quale, citando infondatamente in giudizio il dipendente, inutilmente aveva dato luogo alla partecipazione al processo del datore di lavoro D.T.P. S.r.l., chiamato in garanzia dal sig. A..

Il giudizio d'appello.

Le difese di parte appellante D. SA

Con atto di citazione, ritualmente notificato in data 8 maggio 2019 nei confronti del sig. A. e di D.T.P. S.r.l., D. appellava la sentenza di primo grado, n. 1576/2019, avanzando quattro censure alla decisione del Tribunale.

Con il primo motivo d'appello, D. sosteneva la necessità di sospendere il giudizio in sede di appello, ritenendo erronea l'interpretazione dell'articolo 295 c.p.c., così come nulla la sentenza di primo grado ex art. 298 c.p.c., e sostenendo l'applicabilità dell'art. 337, comma secondo, c.p.c..

Evidenziava l'appellante il rischio di contrasto tra giudicati delle sentenze appellate innanzi alla Corte di Torino, laddove l'accertamento della illiceità del caricamento da parte del sig. A. di sei file audiovisivi e dei file riportati in sede di ricorso cautelare di D. rendeva necessario il precedente accertamento della possibile violazione, da parte di D., dei diritti di autore di D. (oggetto, quest'ultimo, del parallelo procedimento giudiziario, iscritto al Ruolo Generale n. 333/2018).

Il contrasto di giudicati scaturirebbe, secondo D., qualora emergessero decisioni contrastanti, tra i due giudizi di appello, in merito alla illiceità della condotta del sig. A..

Sottolineava quindi come sussistesse, contrariamente a quanto ritenuto nella sentenza appellata, un rapporto di dipendenza tra le due cause, con conseguente necessità di un analogo modus procedendi nel giudizio quanto ai fatti oggetto di causa.

Riteneva l'appellante che, nonostante nel giudizio parallelo di opposizione al precetto il sig. A. non figurasse come parte del procedimento, ciò non negava la pendenza delle cause tra le medesime parti, ossia D. e D.. Il requisito della identità delle parti doveva essere ritenuto significativo, secondo l'appellante, per valutare il vincolo di pregiudizialità.

Sosteneva D., in forza del preteso nesso di condizionamento presente tra le domande formulate nei due giudizi, che la sentenza era nulla per violazione dell'art. 295 c.p.c., avendo peraltro rigettato nel merito le domande di parte appellante, quando invece "la domanda si sarebbe dovuta casomai rigettare in mero rito per carenza di interesse ad agire, non essendosi concretizzato il presupposto dell'esercizio dell'azione consistente nella soccombenza nella controversia pregiudiziale".

Affermava l'appellante, in forza della giurisprudenza della Suprema Corte, come il presente giudizio dovesse divenire oggetto di sospensione facoltativa ex art. 337, secondo comma, c.p.c., se, a seguito di una valutazione effettuata dalla Corte, fosse stata ritenuta l'impugnazione di D. di cui al procedimento 333/2018 meritevole di accoglimento.

Con il secondo motivo di appello, D. lamentava l'illiceità della condotta posta in essere dal sig. A., sia sotto il profilo contrattuale, sia sotto quello extracontrattuale, per aver caricato sulla piattaforma, in modalità "privata", file audiovisivi relativi alle telenovelas dei cui diritti è titolare D..

Richiamava, in particolare, come la sentenza appellata e la sentenza n. 342/2018, oggetto del giudizio di appello nel procedimento parallelo, avessero accertato entrambe la liceità dei caricamenti del sig. A., ritenendo di porre nuovamente all'attenzione della Corte le argomentazioni avanzate in primo grado, e, specificamente, la natura extracontrattuale e quella contrattuale della responsabilità dell'appellato.

La condotta del sig. A. rilevava dal punto di vista extracontrattuale, in considerazione della violazione dei diritti di autore asserita da D., mentre la natura contrattuale dell'illecito era correlata, secondo l'appellante, alla violazione delle Condizioni Generali d'Uso della piattaforma, avvenuta con il caricamento di file "in violazione dei diritti di proprietà intellettuale di terzi".

Con il terzo motivo di appello, D. richiamava il fatto di aver subito un notevolissimo nocumento patrimoniale e morale.

A titolo di danno patrimoniale e indennizzo, l'appellante richiamava il nocumento relativo all'eventuale accoglimento delle domande riconvenzionali formulate da D. nel giudizio di opposizione pendente innanzi alla Corte d'Appello (R.G. 333/2018), il decremento patrimoniale successivo all'esito del procedimento di esecuzione, nonché le spese di assistenza legale sopportate da D. nei procedimenti di opposizione al precetto, di pignoramento, e dello stesso presente giudizio.

A titolo di lucro cessante e di indennizzo richiedeva l'appellante i pretesi mancati guadagni e la perdita di chances per i possibili usi alternativi rispetto ai quali essa avrebbe potuto impiegare le somme accantonate a bilancio, con i relativi interessi.

Insisteva quindi nel sostenere l'illiceità della condotta del sig. A., in quanto causa di un ingente danno morale sia per pregiudizio all'immagine di D., sia per la reputazione di questa.

Con il quarto motivo di appello, l'appellante sosteneva l'errata interpretazione dell'art. 96 c.p.c. e dei fatti di causa, richiedendo la riforma della sentenza di primo grado su tale statuizione, relativamente alla propria condotta processuale, laddove, secondo il giudice di primo grado, D. aveva promosso temerariamente il giudizio.

Il Tribunale aveva trascurato, secondo l'appellante, il fatto che D., nel parallelo procedimento civile, avesse lamentato la violazione di diritti per i contenuti caricati dallo stesso A., chiedendo la condanna di D. al risarcimento dei danni per tali comportamenti. Irrilevante era dunque, secondo l'appellante, la circostanza della consapevolezza o meno, da parte di D., che i caricamenti fossero stati effettuati su istruzione di D..

Riteneva l'appellante, in particolare, che "nel caso di specie, diversamente da quanto ritenuto dalla sentenza appellata, non si può parlare affatto di consapevolezza da parte di D. della liceità di tali caricamenti: e ciò già per il solo fatto che la natura lecita o meno dei caricamenti di E.A. è tuttora sub iudice nel giudizio parallelo pendente dinanzi alla Corte di Appello (RG 333/2018)".

Insisteva dunque D. sul punto relativo alla domanda riconvenzionale di D. nel procedimento parallelo, laddove questa aveva richiesto la condanna di D. al risarcimento del danno per violazione dei diritti di autore sui file audiovisivi caricati dal sig. A..

Ancora, la sentenza del giudice di primo grado proponeva, secondo l'appellante, una lettura errata e riduttiva delle argomentazioni di D., in punto risarcimento del danno, ritenendo, tra le altre, quale voce estremamente rilevante, ai fini delle pretese in appello, il danno scaturente dall'eventuale accoglimento delle domande riconvenzionali di D. nel giudizio di opposizione a precetto, pendente innanzi alla Corte di Appello di Torino (RG 333/2018).

Aggiungeva D. di aver esercitato, nella piena legittimazione contrattuale, e secondo i principi generali dell'illecito aquiliano, il diritto di chiedere ad un presunto contraffattore, nonché utilizzatore dei propri servizi di hosting provider, di essere indennizzata e risarcita dei danni e delle conseguenze derivanti dagli illeciti compiuti.

La temerarietà e strumentalità doveva essere piuttosto individuata, secondo l'appellante, nell'azione di D., avendo questa autorizzato il caricamento illecito dei files e, successivamente, convenuto in giudizio D. per chiedere il risarcimento del danno provocato dall'uploading.

Concludeva richiedendo, in via pregiudiziale e preliminare, di dichiarare con pronuncia non definitiva la nullità dell'impugnata sentenza, e di sospendere il giudizio fino al passaggio in giudicato della sentenza di cui al procedimento RG 333/2018, domandando, nel merito, di accertare e dichiarare la condotta del sig. A. illecita ex art. 2043 c.c., art. 158 L. n. 633 del 1941 e art. 1223 c.c., di condannare il convenuto al risarcimento e/o all'indennizzo di tutti i danni, patrimoniali e non, economici e/o di immagine, di ogni tipo, subiti dalla parte appellante per l'attività illecita posta in essere e/o dell'inadempimento contrattuale, per la somma di Euro 3.000.000,00 ovvero nella maggiore o minore somma, anche in via equitativa, con rigetto di ogni altra domanda, e la vittoria di spese di giudizio.

Le difese di parte appellata sig. E.A.

Con comparsa in data 9 ottobre 2019 si costituiva in giudizio il sig. E.A., resistendo all'appello proposto da D..

Eccepiva, in via preliminare, l'inammissibilità dell'appello avversario ex art. 348-bis c.p.c., non avendo l'impugnazione avversaria alcuna ragionevole probabilità di essere accolta. Questa infatti presentava, a detta dell'appellato, una riproposizione delle argomentazioni avanzate in primo grado, con pretestuosa contestazione delle motivazioni dell'atto impugnato, in aperto contrasto con le disposizioni normative e giurisprudenziali.

Sosteneva quindi, in via preliminare subordinata, il difetto della titolarità passiva dell'azione, ribadendo in sede di appello il proprio difetto di legittimazione passiva.

Affermava che l'appello doveva essere proposto non nei confronti del sig. A., bensì verso D.T., "essendo stata quest'ultima, tramite un proprio dipendente, ad aver caricato sulla piattaforma i video oggetto della domanda di risarcimento avversaria".

Mancava dunque la coincidenza tra colui che proponeva la domanda e colui che nella domanda risultava soggetto passivo del diritto, o comunque violatore di quel diritto.

Di tali circostanze, peraltro, secondo l'appellato era consapevole la stessa D., avendo in più occasioni riconosciuto i caricamenti contestati come effettuati dall'altra appellata, D.T..

Circa il primo motivo di appello relativo al fatto che, secondo l'appellante, la sentenza impugnata fosse nulla per violazione del combinato disposto degli artt. 295 e 298 c.p.c., rilevava l'appellato che l'art. 295 c.p.c. non poteva in alcun modo trovare applicazione nel caso di specie.

A fondamento delle sue argomentazioni, il sig. A. richiamava come i giudizi citati pendessero tra parti diverse ("la sospensione necessaria del giudizio opera solo in caso di identità delle parti in causa nel giudizio pregiudiziale e in quello pregiudicato"), nonché non sussistesse alcun vincolo di pregiudizialità tra il giudizio asseritamente pregiudicante e quello pregiudicato, come, fra l'altro, già indicato dal giudice di primo grado.

Riteneva l'appellato, in ogni caso, che l'articolo 295 c.p.c. non poteva comunque trovare applicazione, dato che il presunto giudizio pregiudicante era già stato definito prima della pronuncia della sentenza impugnata: la giurisprudenza delle Sezioni Unite della Suprema Corte aveva infatti ritenuto la sospensione ex art. 295 c.p.c., in chiave ermeneutica, come ammissibile solo ed esclusivamente nel caso in cui il giudizio pregiudicante e quello pregiudicato siano ancora entrambi pendenti in primo grado, e quindi il giudizio pregiudicante non sia ancora stato definito con sentenza, pur non definitiva.

Infondata, inoltre, era, secondo l'appellato, la richiesta di sospensione del giudizio innanzi alla Corte d'appello ex art. 337, II comma, c.p.c., tenuto conto del fatto che l'esito dell'appello che vedeva coinvolte D. e D. non poteva avere alcuna influenza sul presente procedimento.

Quanto alla seconda censura avanzata dall'appellante, alcuna responsabilità sussisteva, secondo il sig. A., sia a titolo extracontrattuale, sia contrattuale. Egli ribadiva di non aver violato i diritti d'autore di D., avendo invece agito proprio su ordine di D.. Ciò era confermato dal fatto che l'appellante aveva riconosciuto in maniera espressa la liceità degli stessi caricamenti, in quanto effettuati dallo stesso avente diritto, ossia D., per mezzo del suo dipendente, in questa sede anch'essa parte appellata.

Aggiungeva che alcuna violazione dei termini e delle condizioni di servizio della piattaforma sarebbe stata posta in essere da parte dell'appellato: tale contestazione, avanzata dall'appellante, era tardiva in quanto formulata solo in sede di terza memoria istruttoria nel primo grado di giudizio, senza, peraltro, che la controparte argomentasse a sufficienza sul punto.

Circa il terzo motivo di appello, sosteneva il sig. A. che con tale censura l'appellante cercasse di ribaltare i danni nell'eventualità imputabili a D.. Richiamati i danni lamentati da D., l'appellato, tuttavia, poneva in luce la totale assenza di nesso causale tra il caricamento dei video in questione e il danno asseritamente patito dall'appellante: il solo caricamento dei video non era, di per sé, idoneo a determinare i presunti danni lamentati dall'appellante "i quali, quand'anche esistenti, dipenderebbero al massimo esclusivamente da un fatto successivo e del tutto scollegato a detti caricamenti, ossia l'utilizzo degli stessi da parte di D.T. per chiedere le penali".

Il sig. A. evidenziava la temerarietà di D. nel voler far valere, nei suoi confronti, pretese risarcitorie relative ad attività e strategie processuali imputabili esclusivamente allo stesso appellante. In particolare, la temerarietà dell'iniziativa giudiziale era confermata dalla quantificazione del danno avanzata dall'appellante, nell'ordine di Euro 3.000.000,00, tentativo "maldestro", secondo l'appellato, di colpire in modo indiretto D..

Circa il quarto motivo di appello, riteneva l'appellato che l'interpretazione data da D. dell'art. 96 c.p.c. e dei fatti di causa dovesse ritenersi errata, in quanto la temerarietà dell'iniziativa rendeva evidente l'infondatezza e la pretestuosità dell'avversaria richiesta di riforma della impugnata sentenza in punto condanna ex art. 96 c.p.c..

Ciò si deduceva dal fatto che D. era sempre stata a conoscenza della liceità dei caricamenti, in primo grado e in appello contestata dall'appellante, trovando conferma, secondo l'appellato, la malafede con cui D. aveva scelto di agire nei suoi confronti.

Il giudizio di appello relativo all'opposizione a precetto tra D. e D. non aveva inoltre ad oggetto la natura lecita o meno dei caricamenti del sig. A., in quanto relativo alla responsabilità di D. per aver violato i diritti di autore di D., non avendo adottato le misure tecniche idonee a prevenire, ovvero impedire, la violazione del copyright, nonostante il provvedimento cautelare ottenuto da D..

D., nondimeno, aveva espressamente agito contro l'appellato, nonostante lo stesso appellante avesse riconosciuto la piena innocenza del sig. A., e dunque procedendo senza tenere in considerazione le rilevanti conseguenze economiche e psicofisiche di quest'ultimo.

Riteneva quindi l'appellato che lo scopo di D. fosse proprio quello di colpire il lavoratore dipendente per indurre il datore di lavoro D.T. a rinunciare o a negoziare una transazione più favorevole nella altre cause.

Considerava il sig. A. giustificata la domanda di condanna dell'appellante al risarcimento dei danni per lite temeraria ex art. 96, III comma, c.p.c., con richiesta di liquidazione di Euro 42.095,00, in misura pari al compenso spettante al difensore della parte vittoriosa, al netto delle spese, giacché D., già al momento della citazione di primo grado, era a conoscenza del fatto che fosse stata D.T. a caricare i video. In ultimo, e in subordine, poiché il caricamento era avvenuto su espresso ordine di D., chiedeva l'appellato che, nel caso di condanna, questa fosse rivolta soltanto nei confronti della stessa D., ribadendo, anche in sede di appello, la domanda di manleva nei confronti di D..

Concludeva chiedendo, in via preliminare, di dichiarare l'inammissibilità dell'appello ex art. 348 bis c.p.c. e di accertare il proprio difetto di legittimazione passiva / titolarità passiva, domandando, nel merito, di rigettare integralmente l'appello, in quanto infondato, e di confermare integralmente la sentenza impugnata, nonché di condannare l'appellante per lite temeraria ex art. 96, III comma, c.p.c. al risarcimento dei danni a favore dell'appellato, in misura pari a ulteriori Euro 42.095,00 ovvero nella maggiore o minore somma ritenuta congrua, instando, in via subordinata, nel caso di accoglimento dell'appello, per essere totalmente manlevato da D.T., con condanna di quest'ultima a tenerlo indenne da ogni conseguenza negativa derivante dall'accoglimento delle domande avversarie; in ogni caso, con il favore delle spese e degli onorari di entrambi i gradi di giudizio, oltre IVA e CPA come per legge, con aumento del 30% del tariffario medio per la redazione agevolmente fruibile telematicamente.

Le difese di parte appellata D.T.

Si costituiva D.T. con comparsa in data 9 ottobre 2019, resistendo all'appello avversario.

Richiedeva l'appellata, in via pregiudiziale, di valutare l'inammissibilità dell'appello ai sensi dell'art. 342 c.p.c. e dell'art. 348-bis c.p.c., nonché la malafede di D..

Sul primo punto, sosteneva che i quattro motivi di appello formulati dalla difesa avversaria non contenessero alcuna contestazione delle argomentazioni svolte dal giudice di primo grado, dovendo essere ritenute, dunque, del tutto inammissibili.

La difesa avversaria non aveva, in particolare, rispettato i requisiti minimi stabiliti dalla Suprema Corte circa il contenuto dell'atto di appello, laddove i quattro motivi di appello si limitavano a riproporre, apoditticamente, quanto già sostenuto in primo grado di giudizio, senza alcuna censura alle argomentazioni della sentenza del Tribunale.

Sul secondo punto, relativamente all'applicazione dell'art. 348-bis c.p.c., l'appello era, secondo D., inammissibile, in quanto non figurava alcuna probabilità di accoglimento dello stesso e le domande di merito proposte da D. erano manifestamente infondate, se non temerarie.

Sul terzo punto, circa la palese mala fede di D., D. evidenziava come l'appellante fosse un colosso internazionale in tema di servizi internet, nonché proprietario del secondo portale al mondo per la visualizzazione di contenuti.

D.T., in quanto piccola società con attività di acquisto di contenuti audiovisivi esteri, risultava essere penalizzata nel contesto fattuale posto all'attenzione dei giudicanti, ancor più perché la presenza sul sito di D. di tutti, o quasi tutti, i titoli della library di D. aveva privato di qualsiasi valore economico i diritti di utilizzazione degli stessi da parte della appellata, impedendone il legittimo sfruttamento.

In tal senso, l'appellante aveva agito nei confronti non degli effettivi pirati informatici, bensì contro un dipendente di D., chiedendo un abnorme risarcimento di oltre tre milioni di Euro: D. era quindi "partecipe e connivente" con gli autori delle violazioni, avendo goduto, peraltro, degli introiti pubblicitari correlati alla riproduzione dei video.

Come confermato dalla sentenza di primo grado, l'appellante aveva agito contro il dipendente, sig. A., proprio per tentare di colpire D., confidando nella chiamata in causa del datore di lavoro.

D. aveva inoltre assicurato di impedire nuovi caricamenti, senza però procedere in tal senso, e, in luogo di rivolgersi contro i veri pirati informatici, aveva agito contro il sig. A., chiedendo un risarcimento assurdo e immotivato.

Riteneva quindi l'appellato che, in forza delle ragioni illustrate, l'appello dovesse essere dichiarato inammissibile, con condanna della parte appellante al risarcimento del danno per responsabilità processuale aggravata, motivando questo ultimo passaggio con il richiamo della giurisprudenza di legittimità in materia. La domanda di primo grado, secondo D., era quindi palesemente infondata e temeraria, ed egualmente infondato e temerario doveva essere ritenuto l'atto di appello.

Quanto al primo motivo, riteneva l'appellato che il procedimento di appello non dovesse essere sospeso, non potendo sussistere né i presupposti dell'art. 295 c.p.c., né quelli dell'art. 337, II comma, c.p.c..

Il giudizio pendente innanzi alla Corte di Appello non aveva ad oggetto questioni costituenti antecedente logico-giuridico della controversia, giacché D. fondava la propria azione nei confronti di D. sull'illiceità del comportamento tenuto dalla medesima società dopo le diffide inviate dalla stessa D..

D., a seguito delle diffide, doveva procedere a cancellare i contenuti caricati successivamente alle stesse, nonché adottare le misure necessarie per impedire i caricamenti in tutto o in parte corrispondenti a quelli segnalati: nulla, tuttavia, veniva promosso in tal senso da parte dell'appellante.

Riteneva D. di evidenziare come, nel giudizio di opposizione a precetto deciso con sentenza 342 del 2018, la stessa appellata avesse sempre correttamente ammesso che i caricamenti effettuati dal sig. A. erano stati autorizzati, e che erano stati eseguiti al solo fine di verificare l'effettivo adempimento di D. alle proprie obbligazioni. La stessa difesa avversaria, per altro, aveva ammesso che i caricamenti erano stati effettuati dal sig. A. in modalità privata, e quindi "al solo fine di verificare la possibilità tecnica di caricare i contenuti, e non certo con l'intento di diffonderli a terzi".

Sottolineava l'appellato come, nel predetto processo, non si discutesse della legittimità o meno dei caricamenti effettuati dal sig. A., ma unicamente della classificabilità, come inadempimento degli obblighi gravanti su D., della mancata cancellazione, a seguito delle diffide dell'avente diritto, degli stessi caricamenti da parte della presente appellante. Il fatto stesso che il sig. A. avesse potuto caricare i sei files dimostrava palesemente l'inadempimento da parte di D., la quale mai si era dotata di alcun filtro automatico.

Nella sentenza di primo grado il Tribunale non solo aveva ritenuto i titoli di responsabilità, fatti valere nei confronti di A. e D., differenti ed autonomi tra loro, ma aveva anche posto in luce la diversità di parti fra i giudizi, sottolineando che il sig. A. non poteva essere pregiudicato da una sentenza nella quale non era parte in causa.

Secondo la Cassazione, peraltro, l'art. 295 c.p.c. riguarda i casi di vincolo di stretta ed effettiva consequenzialità fra due emanande statuizioni, per cui il giudizio deve essere parallelo e coinvolgere le stesse parti.

Mancavano inoltre, secondo l'appellata, i presupposti applicativi dell'art. 337 c.p.c., ancora più perché D. non invocava minimamente l'autorità della sentenza n. 342 del 2018, bensì l'ipotetica autorità della sentenza di appello, da pronunciarsi in caso di eventuale riforma della stessa.

Sosteneva l'appellato D., circa il secondo motivo di appello, che anche tale censura fosse palesemente infondata, poiché D. si era limitata ad affermare che il sig. A. poteva incorrere sia in responsabilità extracontrattuale, sia in responsabilità contrattuale.

I contenuti caricati, tuttavia, erano del tutto leciti, non rilevando dunque alcuna responsabilità contrattuale per violazione delle condizioni generali di D.: sul punto, l'appellato richiamava la sentenza di primo grado, con la quale il collegio specificava che l'intervento del sig. A. era avvenuto con l'autorizzazione del titolare dei diritti di sfruttamento delle serie tv.

Nel procedimento deciso con sentenza 342/2018, D. poneva a fondamento delle proprie domande l'inadempimento di D. all'inibitoria cautelare, senza toccare la questione inerente il caricamento dei files, bensì incentrandosi sui problemi relativi alla mancata cancellazione alla mancata inibizione dei caricamenti. D., infatti, aveva sempre contestato a D. la mancata cancellazione dei contenuti caricati successivamente alle segnalazioni, a prescindere dagli autori dei caricamenti.

Riteneva D. infondata l'affermazione avversaria secondo la quale i sei files caricati dal sig. A. erano stati qualificati da D. come illeciti, in quanto l'appellata, sin dal ricorso cautelare del 2015, aveva allegato che i caricamenti effettuati da A.U. erano stati fatti esclusivamente al fine di accertare la veridicità delle affermazioni di D.. Ciò trovava conferma nelle ammissioni contenute all'inizio della conclusionale depositata nel procedimento n. 5135/2015 R.G., dove D. affermava che il caricamento effettuato dal sig. A. era avvenuto lecitamente, e non costituiva, né poteva costituire violazione di diritti di D., essendo stato compiuto dal titolare dello stesso diritto.

Sosteneva D. che il terzo motivo di appello era palesemente inammissibile, riducendosi ad una apodittica affermazione delle voci di danno già indicate in primo grado, senza alcuna specifica critica al ragionamento decisorio del giudice di prime cure.

Come prima voce di danno, D. faceva riferimento all'importo di Euro 411.591,05, pignorato da D., ma, all'esito della sentenza 342 del 2018, già restituito, e comunque non costituente un danno causato dal sig. A., in quanto somma derivante dalle violazioni compiute da D., che mai aveva adempiuto ai provvedimenti inibitori emessi dal Tribunale.

Riteneva che nemmeno le spese legali sostenute da D. potessero costituire voci di danno, poiché il rimborso delle stesse può avvenire solo nell'ambito del giudizio in cui esse sono sostenute e le spese erano state compensate nei confronti di D., con sentenza n. 342 del 2018.

Evidenziava come infondato dovesse ritenersi il riferimento ai mancati guadagni realizzabili da D. in caso di assenza di accantonamento a bilancio della somma precettata, in quanto questa non aveva né allegato, né provato il danno, contrariamente a quanto richiesto dalla costante giurisprudenza. Altrettanto infondato riteneva essere il danno asseritamente subito in conseguenza dell'appello proposto da D. nei confronti della sentenza 342/2018. Ancora più infondato, inoltre, era l'asserito danno morale subito da D., la quale confondeva tale voce di danno con il pregiudizio all'immagine: nessuna prova emergeva nondimeno circa tale danno, così come non poteva essere risarcibile, poiché il precetto si fondava anche su cinque contenuti non caricati dal sig. A., ossia contenuti in relazione ai quali il Tribunale aveva comunque riconosciuto il palese inadempimento da parte di D..

Quanto infine al quarto motivo di appello, riteneva D. l'infondatezza dello stesso, in primo luogo, perché appariva inverosimile che l'appellante potesse sostenere l'erroneità della propria condanna per responsabilità processuale aggravata, e, in secondo luogo, poiché totalmente infondate risultavano essere le argomentazioni volte a sostenere la plausibilità della domanda risarcitoria proposta nei confronti del sig. A..

D. peraltro mai aveva affermato che l'appellante avesse caricato contenuti illeciti, ma aveva semplicemente allegato l'inadempienza di D. ai provvedimenti inibitori emessi dal Tribunale di Torino, che imponevano l'adozione di specifici meccanismi di fingerprinting.

D., in particolare, era consapevole della liceità dei caricamenti, giacché D. aveva, sin dal ricorso cautelare del 2015, correttamente specificato che i caricamenti, effettuati da "A.U.", erano stati fatti con il consenso di D. per verificare l'effettivo funzionamento dei filtri informatici che D. aveva dichiarato di utilizzare sul proprio portale.

Evidenziava a questo punto D. come, proprio nel procedimento civile promosso in opposizione al precetto notificato da D., D. avesse apertamente sostenuto che i caricamenti effettuati dal sig. A. erano leciti, e in forza di tali considerazioni aveva svolto le proprie argomentazioni difensive.

Ancora, l'appellante mai aveva intrapreso azioni giudiziarie nei confronti dei numerosi utenti autori dei caricamenti illeciti, così come mai aveva fornito alcuna informazione al riguardo, mentre, come ben evidente, aveva agito giudizialmente solo nei confronti del sig A., pur sapendo della non illiceità dei caricamenti a lui imputabili.

Concludeva, dunque, richiedendo di dichiarare l'inammissibilità dell'appello, ex artt. 342 e 348-bis c.p.c., con conseguente condanna dell'appellante al risarcimento del danno ex art. 96 c.p.c., da liquidarsi in via equitativa per responsabilità processuale aggravata, nonché di confermare integralmente la sentenza 1576/2019, in via principale respingendo, in quanto infondate in fatto e in diritto, le domande proposte da D. nei confronti del sig. A.; in via adesiva accogliendo la domanda risarcitoria proposta in via riconvenzionale dal sig. A. nei confronti di D.; in via di mero subordine, nel denegato e non creduto caso di accoglimento della domanda di D., rimettendosi al prudente apprezzamento del Tribunale circa ogni valutazione sulla domanda di manleva proposta dal sig. A., e, in ogni caso, con vittoria di spese e onorari di causa, oltre al rimborso degli oneri di legge, oltre al risarcimento del danno, ai sensi dell'art. 96, commi I e III, c.p.c., da liquidarsi in via equitativa.

Precisate le conclusioni, il Collegio concedeva i termini per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica.

In sede di precisazione delle conclusioni, D. chiedeva che la causa fosse discussa oralmente dinanzi al Collegio, proponendo dunque, alla scadenza del termine per il deposito delle memorie di replica, istanza di fissazione di udienza ex art. 352, II comma, c.p.c..

Rilevate le esigenze di cautela, previste dalla normativa attinente all'emergenza epidemiologica da COVID-19, il Presidente invitava le parti a comunicare l'intenzione di discutere oralmente la causa, autorizzandole, in caso di rinuncia, a depositare in via telematica le proprie note di udienza entro cinque giorni prima della stessa, con dichiarazione contestuale dei difensori di rinuncia a presentarsi all'udienza.

Attesa la rinuncia delle parti alla discussione orale della causa, questa veniva trattenuta a decisione.

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

 

L'appello proposto da D. SA avverso la sentenza 1576/2019 del 01.04.2019 non è meritevole di accoglimento.

Quanto al primo motivo di appello, con il quale la parte appellante domanda la sospensione del presente giudizio, richiamando gli artt. 295, 298 e 337, II comma, c.p.c., questa Corte ritiene che le citate disposizioni non possano trovare applicazione nel caso di specie.

In primo luogo, è bene confermare in questa sede come la ratio dell'istituto di cui all'art. 295 c.p.c. sia quella di evitare un contrasto di giudicati: la disposizione in parola prevede, dunque, che vi siano due processi, concernenti, rispettivamente, un diritto pregiudiziale e un diritto dipendente.

Il Collegio non ritiene tuttavia che vi sia alcun rapporto, in tal senso, tra il diritto fatto valere in questo giudizio e quello preteso nel parallelo procedimento, quest'ultimo attualmente pendente in grado di appello, avanti a questa Corte, e recante R.G. n. 333/2018.

Come è stato correttamente sostenuto dai giudici di prime cure, nonché avvalorato dalle difese delle parti appellate, occorre anche in questa sede ribadire che i titoli di responsabilità fatti valere nei confronti del sig. A., nel presente procedimento, e nei confronti di D., nel procedimento parallelo, sono differenti e autonomi tra loro.

Mentre nel procedimento parallelo i fatti concernono una presunta condotta omissiva della società D., che non avrebbe attivato le misure di fingerprinting necessarie per impedire il caricamento sulla piattaforma di files coperti da copyright, nel procedimento ora posto all'attenzione di questo Collegio l'appellante D. ha agito per sentir condannare il sig. A. per la condotta dipendente dal caricamento, secondo l'appellante illecito, di materiali che questi sapeva essere coperti da copyright.

Quanto sin qui evidenziato, peraltro, è ribadito dalla stessa società D., parte in causa nel procedimento parallelo, che, con comparsa di costituzione e risposta, ha espressamente sostenuto come l'oggetto della discussione in tale processo non sia la legittimità dei caricamenti effettuati dal sig. A., bensì la mancata cancellazione, a seguito delle diffide ricevute, degli stessi da parte di D., in violazione dei presunti obblighi gravanti sulla società titolare della piattaforma.

In secondo luogo, parimenti corretto è l'orientamento, accolto dal Tribunale e oggetto delle difese delle parti appellate, circa la pendenza dei giudizi paralleli tra soggetti diversi.

In particolare, la Corte ritiene di aderire a quanto affermato dal sig. A., avvalorato anche dalla costante giurisprudenza di legittimità, concernente l'applicabilità dell'istituto della sospensione necessaria di cui all'art. 295 c.p.c.: quest'ultimo opera infatti solo qualora, accertata l'esistenza di un rapporto di pregiudizialità - dipendenza tra i titoli di responsabilità fatti valere in due diversi procedimenti, emerga un'identità delle parti in causa tra i due giudizi.

Tutto ciò non trova alcun riscontro nel caso di specie, giacché il Sig. A. non risulta essere stato parte del giudizio parallelo, vertente tra D. e D., attualmente pendente innanzi alla Corte di Appello di Torino.

È inoltre da sottolineare come, a differenza di quanto ancora affermato in sede di comparsa conclusionale da D. ("A ciò si aggiunga che i due giudizi pendono tra le medesime parti, è cioè D. e D."), l'odierno appellante abbia citato in giudizio innanzi al Tribunale il solo sig. A., non formulando alcuna richiesta nei confronti di D.. Quest'ultima è intervenuta nel processo di primo grado solo a seguito della chiamata in manleva da parte del sig. A. ex art. 106 c.p.c., giacché questi aveva agito su istruzione della società D., presso la quale svolgeva la propria attività lavorativa.

In ordine all'applicabilità dell'art. 295 c.p.c., la Corte di Cassazione ha ancora recentemente affermato che "la pregiudizialità di una controversia è configurabile solo nel caso in cui entrambi i giudizi siano pendenti tra le stesse parti" (Cass. 24.02.2020, n. 4859).

Quanto all'art. 337, II comma, c.p.c., condivisibile è l'assunto avanzato dalla difesa di D., che ha evidenziato come, ai sensi della precitata disposizione, debba essere la sentenza impugnata nel processo parallelo a costituire il fondamento applicativo della norma.

Nel caso di specie, l'appellante vorrebbe far valere nel presente giudizio l'autorità di una emananda sentenza, laddove, come già precisato, il disposto dell'art. 337, II comma, c.p.c. fa riferimento ad una sentenza già pronunciata, che abbia successivamente formato oggetto di impugnazione.

Alcun rilievo può assumere il richiamo, operato dalla parte appellante, alla sentenza resa a Sezioni Unite dalla Suprema Corte, n. 10027 del 19.06.2012, giacché la statuizione dei giudici della Corte di Cassazione muoveva dall'assunto che "quando tra due giudizi esista rapporto di pregiudizialità, e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, è possibile la sospensione del giudizio pregiudicato soltanto ai sensi dell'art. 337 c.p.c.".

Come si è avuto modo di sottolineare, nel caso di specie non può dirsi configurato alcun rapporto di pregiudizialità tra i due giudizi, in forza delle condotte differenti che hanno formato oggetto di trattazione da parte dei giudici del Tribunale e della Corte di Appello.

Quanto al secondo motivo di appello, con il quale l'appellante ha chiesto la condanna del sig. A. sotto i profili della responsabilità extracontrattuale e contrattuale correlati alla condotta del caricamento dei file da questi posto in essere sulla piattaforma, la Corte ritiene che gli argomenti proposti da D. non siano fondati.

In primo luogo, l'appellante ha giustificato la censura alla sentenza di primo grado ammettendo essa stessa che i caricamenti sono avvenuti in maniera del tutto legittima. È sufficiente richiamare quanto stabilito dal giudice di prime cure nella sentenza appellata (p. 12), nonché dal Tribunale nel procedimento parallelo ("Senonché è risultato pacifico in corso di causa che i 6 materiali audiovisivi per cui è stata calcolata la penale di E 744 perché presenti sulla piattaforma D. dal 4.6.2015 al 15.12.2015, sono stati caricati dal sig. A.E., con lo pseudonimo A.U., dipendente della convenuta D.T. che ha agito su incarico di quest'ultima. La presenza di tali video sulla piattaforma D. non costituisce violazione del diritto d'autore di D.T., trattandosi di materiali caricati e manutenuti sulla piattaforma dalla stessa titolare del diritto d'autore tramite il dipendente o comunque su sua autorizzazione e con il suo consenso") per confermare la completa liceità della condotta del sig. A., che ha agito su istruzione della società D..

Il Collegio ritiene inoltre di osservare come il secondo motivo di appello sia stato proposto da D. a seguito dell'impugnazione della sentenza di primo grado di cui al procedimento parallelo, senza nuovamente tenere conto del titolo di responsabilità in forza del quale la società D. ha agito, con domanda riconvenzionale, avverso la società titolare della piattaforma, ossia la stessa D..

È indubbio, dunque, che la Corte di Appello di Torino sarà chiamata ad esprimersi, nell'ambito del procedimento parallelo, sulla sola condotta di D., e non nei confronti del sig. A., che non è parte di quel giudizio.

In secondo luogo, circa gli eventuali profili di responsabilità che attengono al sig. A. nel presente procedimento, occorre ribadire che questi ha agito su indicazione e con l'autorizzazione del titolare del diritto d'autore, ossia della società D., e, di conseguenza, non ha posto in essere alcuna violazione della legge che tutela il copyright. Il sig. A. non può dunque rispondere della propria condotta ex art. 2043 c.c., giacché la presunta violazione del diritto d'autore, pretesa dalla società D., non concerne l'appellato, bensì la società D., ed è stata avanzata nel procedimento parallelo, non nel presente giudizio. A riprova di ciò, occorre richiamare le argomentazioni della appellata D., che ha espressamente confermato come la condotta del sig. A. sia stata posta in essere, su incarico della stessa D., "al fine di accertare la veridicità delle affermazioni di D. (la quale ... aveva risposto alle diffide inviate da D.T.P. asserendo, appunto, di aver predisposto un filtro in grado di bloccare qualsiasi ulteriore caricamento dei contenuti segnalati)" (comparsa di costituzione e risposta in appello di D.).

A ciò consegue, inoltre, che alcun profilo di responsabilità contrattuale può emergere nel caso di specie. Le condizioni d'uso della piattaforma sono state evidentemente rispettate dal sig. A., giacché questi si è conformato alle disposizioni legali e regolamentari in vigore, né ha violato i diritti di proprietà intellettuale della società D., effettuando i caricamenti de qua.

Il Tribunale non ha dunque errato nel sostenere che "A. ha operato con l'autorizzazione del titolare dei diritti di sfruttamento delle serie tv, di cui caricò alcune puntate, e pertanto nel pieno rispetto delle condizioni d'uso stabilite da D.".

Quanto al terzo motivo di appello, l'appellante domanda a questa Corte di riconoscere il risarcimento del danno ex artt. 2043 e 1223 c.c., giacché, a causa della condotta del sig. A., D. ha subito ovvero rischia di subire un ingente nocumento dal punto di vista patrimoniale e morale.

L'appellante, in particolare, chiede al Collegio di porre a carico dell'appellato, a titolo di danno patrimoniale e di indennizzo, il danno scaturente dall'eventuale accoglimento delle domande riconvenzionali formulate da D. nel procedimento parallelo, nonché quello derivante dal decremento patrimoniale all'esito del procedimento di esecuzione, insieme con le spese relative all'assistenza legale, sopportate dalla stessa D. nei procedimenti di opposizione a precetto e di pignoramento, e con quelle del presente giudizio.

L'appellante, inoltre, insta per la condanna del sig. A. a corrispondere alla società il lucro cessante e un indennizzo per i mancati guadagni che essa avrebbe potuto realizzare.

Il Collegio ritiene che anche il terzo motivo di appello non sia meritevole di accoglimento.

I danni lamentati dall'appellante non possono essere fatti ricadere sul sig. A., giacché alcun nesso di causalità sussiste tra questi e la condotta posta in essere dall'appellato.

È inoltre da ribadire come il sig. A. non sia parte del procedimento parallelo: per tale motivo, questi non può rispondere dei danni pretesi da D., del tutto inconferenti con il presente giudizio, giacché i rapporti tra la società e D. nulla rilevano ai fini del procedimento.

Corretto è dunque l'assunto, formulato dal sig. A. in comparsa conclusionale, secondo il quale "tutte queste voci di danno non sono causalmente imputabili ad A. ..., ma al limite ... a D.T. e saranno ... l'oggetto del giudizio tra le due parti".

Circa le spese del presente giudizio, come verrà illustrato più avanti, queste seguono la regola della soccombenza nel processo e terranno dunque conto dell'esito della decisione. L'appellante ha inoltre sostenuto che "la condotta illecita di E.A. è stata foriera anche di un ingentissimo danno morale di cui D. va risarcita e comunque indennizzata".

Anche tale richiesta deve essere respinta, in forza delle argomentazioni, già illustrate, attinenti alla condotta del sig. A., ritenuta da questa Corte estranea a qualsiasi violazione di legge e delle condizioni d'uso della piattaforma e dunque non certamente lesiva della reputazione dell'appellante.

Occorre, ad ogni modo, evidenziare in questa sede come D. abbia errato nel domandare un risarcimento del danno per fatto illecito al sig. A. e non, eventualmente, a D., giacché l'appellato svolgeva la propria attività lavorativa presso questa società. Il sig. A. aveva posto in essere la condotta, oggetto del presente giudizio, su incarico di D., che intendeva in tal modo verificare l'utilizzo, da parte di D., di un sistema di fingerprinting sulla piattaforma.

Sul punto, la Suprema Corte ha affermato che "la giurisprudenza della Corte, infatti, è da tempo pacificamente orientata nel senso che i datori di lavoro ... rispondono dei danni arrecati dai loro dipendenti ... a titolo di responsabilità per fatto altrui, connessa al rischio oggettivamente assunto con l'inserimento dei lavoratori nell'organizzazione, più o meno complessa, da essi creata per lo svolgimento di determinate attività di loro pertinenza. Non si tratta, dunque, di responsabilità derivante dal fatto (proprio) di non averli adeguatamente scelti o sorvegliati nei modi dovuti. Ne discende che, affinché il fatto illecito del commesso o domestico risalga al committente o padrone, a titolo di responsabilità extracontrattuale ai sensi dell'art. 2049 c.c., è sufficiente il presupposto della sussistenza di un rapporto di subordinazione e la presenza di collegamento dell'illecito stesso con le mansioni svolte dal dipendente, mentre si deve prescindere del tutto dai profili di una concreta culpa in eligendo o in vigilando del datore di lavoro" (Cass. Civ. 07.01.2002, n. 89).

Quanto al quarto e ultimo motivo di appello, con il quale l'appellante sostiene l'errata interpretazione dell'art. 96 c.p.c. e dei fatti di causa, la censura non è meritevole di accoglimento.

D. afferma che il Tribunale ha trascurato le doglianze di D. nel procedimento parallelo circa la violazione di diritti per i contenuti caricati dal sig. A., violazione a seguito della quale la società avrebbe agito contro l'odierna appellante con azione esecutiva e con richiesta di condanna di D. al risarcimento dei danni derivanti da tali caricamenti.

Secondo l'appellante, D. non è affatto consapevole della liceità dei caricamenti, giacché la natura lecita o meno degli stessi è ancora sub iudice nel procedimento parallelo.

Ritiene tuttavia il Collegio di dover richiamare, anche in questo caso, il ragionamento, già più volte ribadito, in forza del quale la condotta contestata, oggetto dell'attenzione dei giudici nel procedimento parallelo, risulta essere diversa da quella del presente giudizio.

Tale distinzione si pone, soprattutto, con riguardo alle parti in causa: mentre, infatti, nel procedimento parallelo D. ritiene che D. abbia omesso di predisporre un sistema di controllo (fingerprinting), necessario per evitare caricamenti non autorizzati di materiale coperto da diritto d'autore, nell'odierno processo è la condotta del sig. A. ad essere stata contestata, in quanto ritenuta illegittima dall'appellante.

Quest'ultimo adduce argomentazioni non pertinenti con l'oggetto del giudizio, fondando la propria censura su elementi che, eventualmente, potranno essere valutati nel giudizio parallelo, giacché concernenti una condotta assunta da D., sulla quale, tuttavia, questa Corte non è stata chiamata a pronunciarsi in codesto procedimento.

Appare dunque condivisibile quanto affermato dal giudice di primo grado in ordine al fatto che l'appellante avrebbe convenuto in giudizio il sig. A. per agire, in via indiretta, contro la società D.: secondo il Collegio, quanto avanzato in sede di appello, da parte di D., non può indubbiamente giustificare la riforma della sentenza del Tribunale sul punto controverso.

Ciò è sufficiente per confermare la responsabilità dell'appellante ex art. 96 c.p.c. anche con l'odierno giudizio.

Consegue che, atteso il mancato accoglimento delle domande di parte appellante, ritiene la Corte, secondo il principio della soccombenza, di porre a carico di D. le spese di lite.

La nota spese tiene conto dei parametri forensi delle tabelle di liquidazione di cui al D.M. n. 55 del 2014 e utilizza i valori medi: si ritiene di liquidare la somma di Euro 29.792,00 a favore di ciascuna delle parti appellate, ripartita in fase di studio (Euro 9.183,00), fase introduttiva (Euro 5.339,00) e fase decisionale (Euro 15.270,00).

Circa la richiesta di condanna ex art. 96 c.p.c., formulata in sede di precisazione delle conclusioni dal sig. A., ritiene il Collegio di poter accogliere la domanda dell'appellato, giacché alcuna valida argomentazione è stata addotta da D. avverso la pronuncia di primo grado sul punto. L'impugnazione dell'appellante non esclude peraltro i medesimi ragionamenti già indicati dal Tribunale sulla temerarietà della lite, che possono essere applicati anche nel presente grado di giudizio.

Consegue che i requisiti prescritti dal legislatore ai sensi dell'art. 96 c.p.c. sono anche in questa sede confermati, con riguardo alla soccombenza dell'appellante nonché alla sua comprovata malafede nell'agire in giudizio.

Tutto ciò premesso, la Corte ritiene equo liquidare a favore dell'appellato sig. A., a titolo di danno per temerarietà della lite, la somma di Euro 25.000,00, calcolata secondo i parametri stabiliti dalle Tabelle per la liquidazione del danno non patrimoniale - Edizione 2018 del Tribunale di Milano (Criteri orientativi per la liquidazione ex art. 96 c.p.c. terzo comma).

 

P.Q.M.

 

La Corte d'Appello di Torino, Sezione V civile, Sezione Specializzata in Materia di Impresa,

respinge l'appello proposto da avverso la sentenza n. 1576/2019 in data 01.04.2019 del Tribunale di Torino nei confronti di E.A. e D.T.P. S.R.L.

e per l'effetto:

conferma la sentenza appellata;

pone a carico della parte appellante le spese del presente grado di giudizio, in favore di E.A., liquidate in complessivi Euro 29.792,00, oltre rimborso forfetario 15%, IVA e CPA;

pone a carico della parte appellante le spese del presente grado di giudizio, in favore di D.T.P. S.R.L., liquidate in complessivi Euro 29.792,00, oltre rimborso forfetario 15%, IVA e CPA;

in accoglimento della domanda proposta da E.A., condanna D. a rifondere l'ulteriore somma di Euro 25.000,00 a favore di E.A. per temerarietà della lite ex art. 96 c.p.c..

Si dà atto che per effetto della odierna decisione sussistono i presupposti di cui all'art. 13 comma 1 quater D.P.R. n. 115 del 2002 per il versamento dell'ulteriore contributo unificato di cui all'art. 13 comma 1 bis D.P.R. n. 115 del 2002 da parte dell'appellante.

 

Così deciso in Torino, nella Camera di Consiglio del 13 maggio 2020, svoltasi in via telematica con l'applicativo Microsoft Teams, ai sensi delle disposizioni di cui al D.L. n. 11 dell'8 marzo 2020 (Misure straordinarie ed urgenti per contrastare l'emergenza epidemiologica da COVID-19 e contenere gli effetti negativi sullo svolgimento dell'attività giudiziaria), al D.L. 17 marzo 2020, n. 18 (convertito con L. n. 27 del 2020), al D.L. 8 aprile 2020, n. 23 e al D.L. 30 aprile 2020, n. 28.

Depositata in Cancelleria il 28 maggio 2020