
merito
Tribunale Napoli 15/04/2025 [Made in Italy - Importazione dalla Cina di caschi per motocicli senza indicare l’origine estera dei prodotti e utilizzando sulla confezione il marchio accompagnato dalla dicitura “ITALIAN DESIGN” sovrastante il tricolore]
Made in Italy - Importazione dalla Cina di caschi per motocicli senza indicare l’origine estera dei prodotti e utilizzando sulla confezione il marchio accompagnato dalla dicitura “ITALIAN DESIGN” sovrastante il tricolore della bandiera italiana - Violazione dell’art 4, comma 49, della L. n. 350/2003 - Elementi geografici disponibili sui prodotti idonei a ricondurli all'Italia, senza alcuna altra precisazione che consenta di escludere la provenienza italiana del prodotto - Modalità di etichettatura e di uso del marchio tale da determinare, nel consumatore, l'erronea convinzione che i prodotti siano di origine italiana - Non sufficiente ad escludere la violazione l’indicazione dell’origine dei prodotti sugli scatoloni contenenti la merce, posto che ciò che rileva, ai fini della verifica dell’esistenza dell’illecito amministrativo, è la confezione singola e il prodotto in essa contenuto, in quanto destinati alla vendita e rivolti ai consumatori, e non i cartoni di contenimento, utilizzati per la distribuzione dall’importatore.
SENTENZA
n. 3749/2025 pubbl. 15/04/2025
(Giudice: dott.ssa dott.ssa Anna Maria Pezzullo)
nella causa civile iscritta al n. 11911/2023 del Ruolo Generale degli Affari Contenziosi Civili, avente ad oggetto: opposizione ad ordinanza-ingiunzione, e vertente TRA
Parte_1 (...), in persona del legale rappresentante p.t. Parte_2 (...) in proprio e nella qualità di legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dall’avv. Giuseppe Fiumanò, ed elettivamente domiciliato presso il suo studio sito in Napoli alla Via Chiatamone n. 63, come da procura in atti
- RICORRENTE -
E
Controparte_1 (...) - in persona del Segretario Generale, giusta procura speciale repertorio n.7908 - raccolta n. 2809 prot. 34269 del 18/05/2021, rapp.ta e difesa dall’avv. Maurizio Carrabba ed elettivamente domiciliata presso il suo studio sito in Napoli alla via Lieti a Capodimonte n.51/b, come da procura in atti
- RESISTENTE -
CONCLUSIONI come in atti.
FATTO E DIRITTO
Con ricorso e pedissequo decreto di fissazione d’udienza, ritualmente notificati, la parte ricorrente in epigrafe impugnava l’ordinanza-ingiunzione n. 2023/878 con cui le si comminava la sanzione pecuniaria di €. 20.000,00, oltre spese di notifica, per aver violato l’art 4 co 49 della L. 350/03, avendo ella importato n. 167 e n. 233 colli di caschi per motocicli dalla Cina, senza che su di essi fosse indicata l’origine estera dei prodotti e con applicazione, sulla scatola utilizzata per il confezionamento dei singoli caschi, del marchio CP_2 accompagnato dalla scritta “ITALIAN DESIGN” posizionata sopra il tricolore della bandiera italiana.
A fronte delle violazioni accertate e del conseguente sequestro della merce disposto con P.V.C. (processo verbale di contestazione) del 04.04.2019, veniva adottata l’impugnata ordinanza-ingiunzione da parte dell’amministrazione resistente, dopo aver audito il trasgressore ed aver ritenuto le difese di quest’ultimo infondate. La parte ricorrente precisava, in ogni caso, che la merce sequestrata veniva, successivamente, dissequestrata, previa regolarizzazione amministrativa della stessa, mediante apposizione, su ciascun prodotto, di idonea appendice informativa atta a rendere chiara l’origine non italiana.
Interposto ricorso, i motivi di opposizione erano i seguenti: 1) omessa notifica del PVC contenente la sanzione pecuniaria comminata, in violazione dell’art 14 L 689/81; 2) infondatezza, nel merito, della violazione contestata, in quanto sul cartone contenente la merce sequestrata, oltre al marchio Con, era indicata la dicitura “made in China”, mentre l’indicazione “Italian design” non sarebbe stata ingannevole in quanto il disegno era stato realizzato effettivamente in Italia, omologato e registrato per la Comunità Europea, infine, la mancata applicazione dell’etichetta sui caschi della loro origine cinese doveva imputarsi al produttore che non avrebbe soddisfatto pienamente le specifiche richieste; 3) sproporzione della sanzione comminata.
Si costituiva l’amministrazione resistente che, contestando l’avverso dedotto in giudizio, chiedeva il rigetto del ricorso in quanto infondato e la conferma dell’impugnato provvedimento.
Accolta l’istanza di sospensione del provvedimento impugnato, disattesa la prova testimoniale articolata dalla parte ricorrente, il Giudice rinviava la causa per la discussione del ricorso all’udienza del 14/04/2025.
Così riassunti i termini della controversia, occorre affermare che il ricorso è infondato e per tale ragione va respinto.
Il primo motivo, concernente l’omessa notifica del PVC, è infondato. Va, innanzitutto, rilevato che l’amministrazione resistente ha prodotto in giudizio il pacifico ed incontestato verbale di contestazione dell’illecito del 04/04/2019, atto presupposto dell’ingiunzione impugnata, firmato dalla parte ricorrente nella qualità di legale rappresentante della società Parte_1.
Ne consegue che la contestazione dell’illecito è stata immediata e quindi l’amministrazione non era tenuta alla notifica del richiamato verbale; si rammenta, in proposito, che l’art 14 della l. 689/81 stabilisce che: “La violazione, quando e possibile, deve essere contestata immediatamente tanto al trasgressore quanto alla persona che sia obbligata in solido al pagamento della somma dovuta per la violazione stessa. Se non è avvenuta la contestazione immediata per tutte o per alcune delle persone indicate nel comma precedente, gli estremi della violazione debbono essere notificati agli interessati residenti nel territorio della Repubblica entro il termine di novanta giorni e a quelli residenti all'estero entro il termine di trecentosessanta giorni dall'accertamento. Quando gli atti relativi alla violazione sono trasmessi all'autorità competente con provvedimento dell'autorità giudiziaria, i termini di cui al comma precedente decorrono dalla data della ricezione.”.
In secondo luogo, per convincersi dell’infondatezza del motivo in commento, è sufficiente rammentare il procedimento amministrativo con cui la Legge 689/81 disciplina l’adozione dell’ordinanza-ingiunzione. Sotto quest’aspetto, la Legge n. 689/1981 delinea un procedimento a carattere contenzioso con una precisa scansione temporale a garanzia dell’interessato: innanzitutto viene fissato il termine di novanta giorni per la notifica della violazione, se non vi è stata la contestazione immediata (articolo 14); nei successivi sessanta giorni è ammesso il pagamento in misura ridotta (articolo 16); se questo non avviene, viene trasmesso il rapporto all'autorità competente (articolo 17) ed entro trenta giorni dalla contestazione, ovvero dalla notifica della violazione, gli interessati possono far pervenire all'autorità competente a ricevere il rapporto ex articolo 17 scritti difensivi e documenti e chiedere di essere sentiti (articolo 18).
Successivamente, l’amministrazione, ove non ritenga fondate le difese del trasgressore, adotta l’ordinanza-ingiunzione con cui commina la sanzione, di norma pecuniaria, prevista per il caso concreto. Del resto, giova rammentare, ancora, che, secondo principi giurisprudenziali ormai acquisiti, «in tema di opposizione a sanzioni amministrative, il verbale di accertamento della violazione è impugnabile in sede giudiziale unicamente se concerne l'inosservanza di norme sulla circolazione stradale, essendo in questo caso soltanto idoneo ad acquisire il valore e l'efficacia di titolo esecutivo per la riscossione della pena pecuniaria nell'importo direttamente stabilito dalla legge; quando, invece, riguarda il mancato rispetto di norme relative ad altre materie, il verbale non incide "ex se" sulla situazione giuridica soggettiva del presunto contravventore, essendo esclusivamente destinato a contestargli il fatto e a segnalargli la facoltà del pagamento in misura ridotta, in mancanza del quale l'autorità competente valuterà se vada irrogata una sanzione e ne determinerà l'entità, mediante un ulteriore atto, l'ordinanza di ingiunzione, che potrà formare oggetto di opposizione ai sensi dell'art. 2 della legge n. 689 del 1981» (cfr. Cass., Sez. Un., 4 gennaio 2007, n. 16). Ed ancora: «Il verbale di accertamento di violazioni punite con sanzioni amministrative non è impugnabile ex se, con la sola eccezione delle violazioni al codice della strada. Ne consegue che al di fuori della suddetta materia l'opposizione proposta non già avverso l'ordinanza ingiunzione che irroga la sanzione amministrativa, ma avverso il verbale di accertamento è inammissibile, e tale vizio può essere rilevato anche d'ufficio e sinanche nel corso del giudizio di legittimità» (cfr. Cass., 30 agosto 2007, n. 18320; Cass., 2 settembre 2004, n. 17674).
Da quanto precede, si deve concludere, nel caso di specie, che l’unico atto, contenente la sanzione pecuniaria, che doveva essere notificato alla parte ricorrente, era ed è l’ordinanza ingiunzione opposta con il ricorso in esame, e non già il verbale di contestazione.
Passando al secondo motivo di opposizione, esso è parimenti infondato.
Va premesso che, nell'ambito delle disposizioni penalistiche in materia di importazione, esportazione, commercializzazione dei prodotti recanti false o fallaci indicazioni di provenienza o di origine e di tutela del "made in Italy" di cui all'art. 4, comma 49, della L. n. 350 del 2003, il comma 49 bis L. n. 350 del 2003 - introdotto con l'art. 16 D.L. 25 settembre 2009, n. 135 – il legislatore delinea una specifica ipotesi di illecito amministrativo; detta disposizione così prevede: "Costituisce fallace indicazione l'uso del marchio, da parte del titolare o del licenziatario, con modalità tali da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana ai sensi della normativa Europea sull'origine, senza che gli stessi siano accompagnati da indicazioni precise ed evidenti sull'origine o provenienza estera o comunque sufficienti ad evitare qualsiasi fraintendimento del consumatore sull'effettiva origine del prodotto, ovvero senza essere accompagnati da attestazione, resa da parte del titolare o del licenziatario del marchio, circa le informazioni che, a sua cura, verranno rese in fase di commercializzazione sulla effettiva origine estera del prodotto. […] Il contravventore è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da €
10.000 ad € 250.000".
La disposizione è finalizzata a evitare fraintendimenti del consumatore in ordine all'origine non italiana del prodotto e in tale prospettiva punisce l'uso del marchio ove ciò avvenga in modo tale da ingenerare situazioni di incertezza eventualmente derivanti anche soltanto dalla carenza di "indicazioni precise ed evidenti sull'origine o provenienza estera". Tale disposizione è diretta ad assicurare non solo la tutela del "made in Italy", ma altresì a garantire un'adeguata informazione del consumatore sul prodotto che intende acquistare, così che possa consapevolmente orientare la propria scelta.
Circa l’interpretazione della norma in esame, va ricordato quanto affermato dalla Suprema Corte, con la sentenza n. 52029/14, secondo la quale: "la disposizione dettata dal nuovo comma 49-bis (introdotto nel testo dell art. 4 della L. n. 350 del 2003 dal comma 6, del richiamato art. 16 del D.L. n. 135 del 2009) sanziona in via amministrativa la condotta diretta a trarre in inganno i consumatori sull'origine o provenienza dei prodotti commercializzati, attraverso l'uso decettivo del proprio marchio, laddove l'apposizione dello stesso sui prodotti esteri sia idoneo ad ingenerare nel pubblico (e cioè nel consumatore medio dello specifico settore), nelle circostanze concrete, la convinzione che la merce sia di origine italiana ai sensi della normativa Europea sull'origine" e ha ritenuto che "in tema di tutela penale dei prodotti dell'industria e del commercio, integra l'illecito amministrativo previsto dall'art. 4, comma 49-bis, della L. n. 350 del 2003 - e non il reato di cui all'art. 517 cod. pen. - l'importazione dall'estero di prodotti recanti un'etichetta raffigurante un marchio (nella specie, ") idoneo, in assenza di precise indicazioni sulla esatta provenienza o della dichiarazione di impegno a rendere tali informazioni in fase di commercializzazione, a trarre in inganno anche un consumatore esperto sull'effettiva origine del prodotto" (cfr. Cass. 52029/14).
Circa la distinzione tra l’illecito penale, previsto dall’art. 4 comma 49 e l’illecito amministrativo, di cui al successivo comma 49 bis dell’art. 4, la Suprema Corte, con la sentenza n. 21256/14, poi seguita dalla più recente n. 25030/17, ha evidenziato che “in tema di tutela penale dei prodotti dell'industria e del commercio, la "fallace indicazione" del marchio di provenienza o di origine impressi sui prodotti presentati in dogana per l'immissione in commercio integra: a) il reato previsto dalla L. n. 350 del 2003, art. 4, comma 49, qualora, attraverso indicazioni false e fuorvianti o l'uso con modalità decettive di segni e figure, il consumatore è indotto a ritenere che la merce sia di origine italiana; b) l'illecito amministrativo previsto dalla citata Legge, art. 4, comma 49-bis, qualora, a causa di indicazioni di provenienza insufficienti o imprecise, ma non ingannevoli, il consumatore è indotto in errore sulla effettiva origine dei prodotti” (cfr. ancora Cass. civ. sent. 20226/2022).
Dunque, ove l'uso del marchio possa determinare fraintendimenti in ordine all'origine del prodotto e indurre il consumatore a ritenere che si tratti di un prodotto di origine italiana vi è l'obbligo di accompagnare la merce con indicazioni comunque sufficienti ad evitare qualsiasi fraintendimento del consumatore sull'effettiva origine del prodotto. Nel caso di specie, non vi è contestazione in ordine all'origine non italiana della merce oggetto di sequestro (proveniente dalla Cina). Sui prodotti e sulle singole confezioni, pronte per la commercializzazione, era apposto esclusivamente il marchio CP_2 con la dicitura “ITALIAN DESIGN” posizionata sopra il tricolore della bandiera italiana, senza alcuna ulteriore indicazione che potesse far desumere la provenienza non italiana della merce. Quindi, in concreto, i dati ricavabili dalla confezione non solo non forniscono alcun indizio sull'origine non italiana dei prodotti, ma proprio per la presenza di più indicatori riferiti all'Italia -la scritta Italian design e la bandiera tricolore italiana – inducono naturalmente il consumatore a ritenere che la merce sia di origine italiana o comunque a non comprendere che il prodotto non è di origine italiana. In altre parole, la circostanza che gli unici elementi latamente geografici disponibili riconducono all'Italia, senza alcuna altra precisazione che consenta di escludere la provenienza italiana del prodotto, costituisce modalità di etichettatura e di uso del marchio tale da determinare, nel consumatore, l'erronea convinzione che i prodotti siano di origine italiana. È evidente che un simile utilizzo del marchio viola la previsione normativa dell'art. 4, comma 49 L. n. 350 del 2003. Né può escludere la violazione l’indicazione dell’origine dei prodotti sugli scatoloni contenenti la merce, posto che ciò che rileva, ai fini della verifica dell’esistenza dell’illecito amministrativo, è la confezione singola e il prodotto in essa contenuto, in quanto destinati alla vendita e, dunque, rivolti ai consumatori, e non i cartoni di contenimento, utilizzati per la distribuzione dall’importatore.
Né vale ad escludere l’illecito amministrativo contestato, l’affermazione secondo la quale la merce importata non sarebbe contraffatta, perché tale circostanza non è in contestazione, né che la dicitura “italian design” è frutto di un disegno realizzato effettivamente in Italia in quanto ciò evidentemente non esclude che la parte ricorrente sia comunque obbligata a conformarsi alle disposizioni della L. n. 350 del 2003 e a precisare, sui prodotti o sulle singole confezioni, che essi non sono di origine italiana. Anzi, proprio l’apposizione del marchio aziendale con l’indicazione “Italian design” e la bandiera tricolore italiana, senza ulteriori indicazioni in ordine all'origine non italiana del prodotto, ha concretamente costituito violazione dell'art. 4 co. 49 L. n. 350 del 2003. Infine, l’ulteriore circostanza opposta dal ricorrente, secondo cui, la mancata applicazione dell’etichetta sui caschi della loro origine cinese è da imputarsi al produttore che non avrebbe soddisfatto pienamente le specifiche richieste, è da ritenersi infondata anche e soprattutto perché non provata; né, al riguardo, era ammissibile la prova testimoniale articolata (v. ord. del 06/06/2024).
Va aggiunto, poi, che il dissequestro della merce, come riportato dalla parte ricorrente, previa regolarizzazione secondo le prescrizioni di legge della merce in esame, costituisce ulteriore indice della fondatezza dell’addebito contestato: infatti, in tanto, si può disporre il dissequestro della merce, in quanto è imposto previamente al trasgressore di rieticchettare la merce in modo conforme alla L. 350/2003 (cfr. art. 4 comma 49 ter L 350/03 secondo cui “E' sempre disposta la confisca amministrativa del prodotto o della merce di cui al comma 49-bis, salvo che le indicazioni ivi previste siano apposte, a cura e spese del titolare o del licenziatario responsabile dell'illecito, sul prodotto o sulla confezione o sui documenti di corredo per il consumatore”).
Per quanto riguarda la sproporzione della sanzione (motivo sub 3), si evidenzia, in primo luogo, che il valore della merce è pari ad €. 35.062,86, come si evince dal verbale di sequestro, e non già €. 7.000,00, come dedotto dal ricorrente nelle note scritte depositate ex art 127 ter c.p.c; in secondo luogo, la sanzione prevista dalla norma violata va da un minimo di €.10.000,00 ad un massimo di €. 250.000,00, la cui entità viene stabilita, non già sulla scorta del valore della merce, ma sulla base della gravità della violazione commessa. Tanto chiarito, si evidenzia che la sanzione comminata è, in ogni caso, prossima al minimo edittale e dalle argomentazioni su esposte non emergono elementi che giustificano una sua ulteriore riduzione o ancora la sua manifesta sproporzione.
Dalle superiori considerazioni discende, dunque, il rigetto del ricorso e la conferma dell’impugnata ordinanza.
Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano in base ai parametri medi ridotti del 30%, in assenza di particolari questioni di fatto e di diritto, di cui al D.M. 55/14 come aggiornato dal D.M. 147/22, alla luce dello scaglione in cui ricade la controversia, tenuto conto, altresì, delle fasi svolte, delle questioni trattate e di ogni altro vantaggio previsto dal richiamato decreto. Tali spese sono attribuite in favore dell’avv. Maurizio Carrabba, dichiaratosi antistatario.
P.Q.M.
Il Tribunale, ogni diversa istanza, eccezione e deduzione disattesa, definitivamente pronunciando in ordine alla causa in epigrafe così provvede:
a) Rigetta il ricorso;
b) Condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese di lite in favore dell’amministrazione resistente che liquida in €. 3.553,90 per competenze professionali ai sensi del DM 55/2014, oltre spese forfettarie nella misura del 15%, oltre IVA e CPA come per legge, con attribuzione all’avv. Maurizio Carrabba, dichiaratosi antistatario.
Così deciso in Napoli, il 14/04/2025
IL GIUDICE
Dott.ssa Anna Maria Pezzullo