8 maggio 2018
Nulli i marchi TECAR e TECARTERAPIA: si tratta di denominazioni di uso comune, già presenti nei prontuari medici
di Annalisa Spedicato
La società titolare dei marchi TECAR e TECARTERAPIA, registrati a livello nazionale e comunitario rispettivamente negli anni 2003 e 2007, aveva agito davanti alla Corte d’appello di Bologna, sezione specializzata in materia d’impresa, per ottenere il ribaltamento della sentenza che aveva negato in primo grado la contraffazione dei segni suddetti, decidendo in favore di una società concorrente che li aveva utilizzati nell’ambito della promozione di un proprio macchinario elettromedicale.
La Corte d’appello confermava la decisione dei colleghi di prime cure, dichiarando la nullità dei marchi per difetto di capacità distintiva, in quanto termini già diffusi nel linguaggio scientifico, negando peraltro anche l’acquisizione del secondary meaning, anzi, a tal proposito, i giudici, pur volendo ammettere una possibile capacità distintiva originaria dei segni, avrebbero rilevato il sopravvenire di una successiva volgarizzazione degli stessi, ai sensi dell’art. 26 del CPI, essendo i termini divenuti di uso comune nel linguaggio medico scientifico, poichè usati genericamente per identificare le terapie erogate da ogni macchinario idoneo ad attuare "il trasferimento energetico capacitivo resistivo, fino ad essere inseriti nei prontuari medici".
Contro tale decisione, la titolare delle registrazioni ha presentato ricorso in Cassazione per violazione dell’art. 13 del Codice della proprietà industriale in riferimento all’asserita assenza di capacità distintiva dei segni da parte dei giudici di merito, in quanto, spiega nel proprio ricorso, si tratta di termini di pura fantasia che nulla hanno a che fare con la terapia applicata (ipertemìa o diatermìa) mediante gli apparecchi cui si riferiscono o con le caratteristiche afferenti agli stessi. Peraltro, afferma la ricorrente, la Corte d’appello non avrebbe tenuto in debita considerazione una risalente registrazione del marchio Tecar (affiancato ad altri termini) anteriore alle altre due registrazioni e precedente rispetto all’inserimento dei vocaboli nei manuali medici, in quanto nella stessa registrazione i giudici avrebbero erroneamente individuato il cuore del marchio in un altro termine, dichiarando inesattamente la conseguente irrilevanza della circostanza rappresentata dalla esistenza di una risalente registrazione di altro marchio di cui la ricorrente era titolare.
La Cassazione però nella sua pronuncia (Cass. civ., sez. I, sentenza n. 10300 del 27 aprile 2018) ha dichiarato inammissibile il ricorso, in quanto ha attestato che fosse provato che negli anni 2003 e 2007, l’acronimo TECAR era già presente nei prontuari medici, senza alcun riferimento alla società ricorrente e dunque i giudici di merito avrebbero correttamente dato applicazione all’art. 13 c.p.i., lett. a) che ritiene privi di carattere distintivo i segni "che consistono esclusivamente in segni divenuti di uso comune nel linguaggio corrente o negli usi costanti del commercio", diversamente dalla lett.b) della stessa disposizione che esclude il carattere distintivo dei segni "costituiti esclusivamente dalle denominazioni generiche di prodotti o servizi o da indicazioni descrittive che ad essi si riferiscono, come i segni che in commercio possono servire a designare la specie, la qualità, /a quantità, la destinazione, il valore, la provenienza geografica ovvero l'epoca di fabbricazione del prodotto o della prestazione del servizio, o altre caratteristiche del prodotto o del servizio". Simmetricamente, l’art. 25 c.p.i. sancisce la nullità dei marchi privi di capacità distintiva (salvo che non l’abbiano acquistata successivamente alla registrazione).
La ratio iuris di tale disposizione si ritrova nel fatto che il legislatore abbia inteso evitare che si possano creare situazioni di esclusiva nell’uso di termini di uso comune che a loro volta possano tramutarsi in monopoli di fabbricazione, creando così in favore del titolare del marchio un vantaggio concorrenziale. In tal modo, infatti i concorrenti si vedrebbero negata la possibilità di designare un prodotto/servizio con il proprio nome generico, con conseguenti ostacoli nelle operazioni commerciali. Il divieto si rivolge a marchi privi di capacità distintiva, costituiti senza alcun apporto inventivo, il cui risultato giuridico si trasforma in termini in cui l’originalità è assente poichè ordinati su espressioni che sostanzialmente, e nel loro complesso, si limitano a richiamare la qualità merceologica o la funzione produttiva, oppure ancora una caratteristica tecnica del prodotto (Cass. n. 2405/2015; Cass. n. 967/1999; Cass. n. 1929/1998). Tra l’altro la capacità distintiva è il requisito primario di un segno, infatti se anche si potesse ammettere che un segno possa ricevere tutela se mancante di novità o se illecito, l’assenza della capacità distintiva comporta una vera e propria inesistenza del marchio che, in tal caso, non può in alcun modo essere considerato segno identificativo di qualcosa.
Questo però non significa che una parola di uso comune non possa in alcun caso assurgere a diventare un marchio, tuttavia il criterio interpretativo da usare in tali circostanze deve essere restrittivo, occorrendo verificare che i segni abbiano subìto una modificazione tale da cancellare il loro originale significato linguistico generico, fino a diventare elementi che tratteggiano agli occhi del pubblico un nuovo prodotto e l’azienda che lo realizza e lo commercia, perché impiegati in senso arbitrario, fantastico, iperbolico, senza alcuna aderenza concettuale con l’oggetto che sono destinate a contrassegnare (v. Cass. n. 1929/1998 cit.; Cass. n. 11017/1992); medesimo orientamento si ritrova nella giurisprudenza della Corte europea.
Né può dirsi, secondo la Cassazione, che nel caso di specie possa considerarsi intervenuta una convalidazione successiva dovuta all’uso e all’acquisizione del secondary meaning del segno, poiché la Corte d’appello ha accertato, con accurato esame nel merito, che nella percezione del pubblico non si è verificato affatto il necessario mutamento di significato del segno, da generico a specifico, con acquisizione di un carattere individualizzante, tale da poter affermare che il segno abbia assunto le vesti di indicatore di provenienza del prodotto dalla specifica impresa.
TECAR e TECARTERAPIA sono pertanto termini del linguaggio comune che tutti gli operatori possono utilizzare genericamente per riferirsi ai macchinari e alla relativa pratica fisioterapica.
Annalisa Spedicato
Avvocato esperto in IP, ICT e Privacy