26 giugno 2014
Brevetti one-to-one: quando e perché brevettare? Come usare i brevetti ottenuti?
Sono domande che chi si affaccia in molti settori della tecnologia prima o poi affronta. Miti e leggende affollano però la letteratura, anche sui quotidiani economici più prestigiosi, che qui vorremmo mettere a nudo.
Proprio in queste settimane sulle radio e le tv nazionali sono comparsi gli spot pubblicitari di una campagna promossa dal Ministero dello Sviluppo Economico mirata a sottolineare l’importanza della proprietà industriale per “far crescere le tue idee”. E recentemente abbiamo letto un articolo su Il Sole 24 Ore che lamentava un declino nel numero di brevetti italiani registrati presso l'EPO (vedi sotto), come se ciò fosse un indicatore del declino della qualità della ricerca industriale e dell'innovatività del Made in Italy. Ma lo è?
Da qui è nata l'idea di un articolo che restituisse una visione più reale della brevettazione, da parte di chi (io) bene o male campa anche negoziando brevetti e trasferimenti di tecnologia e lavorando con chi di brevetti si deve occupare, specialmente nella tecnologia dell'informazione. E che da una posizione estremamente positiva in giovane età ha assunto una posizione sempre più perplessa.
LUNGA PREMESSA STORICA
Si dice colloquialmente “brevetto”, ma si dovrebbe parlare di “brevetto per invenzione industriale”. “Brevetto” vuol dire “licenza” (“brevetto di pilota”), “autorizzazione”, “permesso”. In inglese si chiamano “patent” perché fisicamente erano strumenti autorizzativi che potevano essere mostrati per rendere evidente (“patent” vuol anche dire proprio “evidente”) un proprio diritto o privilegio, spesso di derivazione regale. Ad esempio esistevano le “patenti di corsa” che davano diritto a scorrerie altrimenti definite “pirateria”. Il brevetto per invenzione industriale, nell'accezione moderna, è un titolo che consente di avere un'esclusiva di vent'anni (circa) nello sfruttamento commerciale di un prodotto o un processo innovativo.
Ma attenzione, un brevetto non copre un oggetto o un processo nella sua interezza. Facciamo un esempio noto a tutti: la lampadina a incandescenza. Thomas Edison non brevettò la lampadina, ma una piccola parte di essa. L'idea di illuminare facendo passare la corrente attraverso un filamento in un bulbo di vetro contenente gas inerte era già nota e realizzata industrialmente da Sir Joseph Wilson Swan, utilizzando un filamento in carbonio. Edison ebbe l'idea di usare il tungsteno (anche se vi è qualche dubbio che fosse tutta farina del suo sacco). Brevettò questa parte, fece causa a Swan che aveva iniziato anch'egli a produrre lampadine con il nuovo filamento in Gran Bretagna, dove Edison non riuscì ad ottenere il brevetto. Perse, ma si accordò con l'avversario e fondarono una società che poi entrò a far parte della General Electric (qui si può leggere tutta la storia).
Il brevetto copre solo la parte “inventiva”, ovvero ciò che non sia già noto o facilmente desumibile dallo stato della tecnica. Col passare degli anni e il progredire della tecnologia, la stratificazione di più brevetti e altri trovati non brevettati è diventata così veloce che al giorno d'oggi la brevettazione è diventata molto più a grana fine. Si calcola che in uno smartphone medio il numero di brevetti rilevanti (inclusi gli standard di telecomunicazione che utilizza) passi le 200.000 unità, ovvero molto più dei suoi singoli componenti.
CONVIENE BREVETTARE?
La risposta alla domanda se convenga brevettare è una sola, inequivoca: dipende! Dipende da cosa si vuole raggiungere con la brevettazione. Si vuole essere gli unici a produrre un prodotto o usare un procedimento in esclusiva? Si vuole avere una moneta di scambio in caso di guerre di brevetti? Si vuole avere un qualcosa di spendibile in una negoziazione per la vendita di una startup? Questi sono alcuni dei possibili scopi, per cui il brevetto (o meglio, un portafoglio di brevetti) può servire. Occorre vedere se in termini di efficacia (raggiunge gli obiettivi) e di efficienza (a quale prezzo? Con quali rischi?) la decisione sia sensata.
Cominciamo dai costi. I costi sono piuttosto alti, si traducono in un costo iniziale di scrittura del brevetto, che va depositato (in Italia all'UIBM, in Europa all'EPO, Monaco di Baviera, prossimamente vi sarà anche il brevetto unico europeo) da parte di un agente brevettuale autorizzato. Vi sono poi costi e tasse di registrazione. Se si deposita un brevetto europeo vanno aggiunte le spese di traduzione per ciascuna delle lingue ufficiali per gli stati nei quali si invoca la protezione (è un sistema di brevettazione nazionale, nonostante il nome). Si va facilmente nell'ordine delle decine di migliaia di euro, per un brevetto europeo. Da moltiplicare se si vuole estendere in brevetto ad altre parti del mondo (nel sistema IPC).
Ottenuto un brevetto, questo va usato e lo si può usare in vari modi. Può essere usato per ottenere un'esclusiva, così da escludere la concorrenza dalla propria tecnologia. In tal caso la concorrenza ha due alternative: ignorare il brevetto, ricercando una maniera diversa e non coperta dal brevetto di raggiungere risultati uguali o migliori (“to invent around”), o accordarsi con voi, pagandovi una somma (“royalty”). Ma è possibile che anche questa concorrenza ha qualcosa che volete o dovete utilizzare, dunque potete mettervi d'accordo e fare una licenza incrociata (“cross licensing”). Il Cross licensing è una pratica ampiamente diffusa nella grande industria: nessuno sa esattamente quali brevetti di ciascuno sono rilevati e validi, ma essendo grosso modo equivalenti, con un sistema di accordi ci si accorda per licenziarli reciprocamente, spesso senza esborsi da una parte all'altra (“i brevetti vengono pesati, non contati”). Se poi arriva un terzo che brevetti non ne ha, o ne ha meno (tipicamente la startup innovativa), questa è una buona occasione per escluderla dai giochi e convincere i soci a venderla a uno dei pezzi grossi.
C'è un ulteriore possibilità: che il concorrente non si curi del vostro brevetto e vada sul mercato lo stesso. Allora potete cercare di impedirlo con un avvertimento (“cease and desist”). Se questi ancora lo ignora, dovete fargli causa. E qui iniziano i dolori, perché i costi possono salire tra le centinaia di migliaia di euro fino al milione e più. Tanto è vero che da un lato molti non iniziano nemmeno una causa, non avendone i mezzi. In più, normalmente se vi è una causa brevettuale, l'aggredito tenta di annullare o restringere di molto la protezione del brevetto, con il risultato che l'attore perdente può ritrovarsi senza nemmeno il brevetto e con salate parcelle da pagare.
Peraltro, molti sfruttano questa paura di incorrere in alti costi per aggredire imprese di medie o anche grandi dimensioni ed “estorcere” una transazione. Molto spesso questi soggetti non sono produttori (un produttore potrebbe temere di ricevere qualche tipo di ritorsione), ma sono “entità non produttive” (“Non-Practicing Entities”), comunemente definite “troll”.
Al di là del trolling, il gioco dell'uso assertivo dei brevetti è normalmente una via di mezzo tra il gioco del poker (vince non solo chi ha carte migliori, ma anche chi usa meglio le fishes che ha, se ne ha di più) e la guerra fredda (se il tuo avversario ha tanti brevetti, accumulane anche tu, così in caso di guerra è assicurata la mutua distruzione, detta anche strategia MAD = “Mutually Assured Destruction”). Va da sé che l'uso assertivo dei brevetti è riservato a chi è molto grande e può impiegare risorse miliardarie per acquistare portafogli (esempio, Google che acquista Motorola mobility per 12 miliardi di Dollari). Gli altri possono o tenere la testa chinata, oppure associarsi in patent pooling contro l'uso aggressivo dei brevetti in senso anticompetitivo.
Un ultimo uso significativo è quello su cui contano molte startup. Tengo in portafoglio un certo numero di brevetti così in caso di investimento da un venture capitalist o di exit con vendita verso una società più grande, ho qualcosa di immediatamente verificabile circa la consistenza tecnologica della mia azienda. È un discorso che ha obiettivamente qualche merito, anche se vi sono venture capitalist che affermano di non tenere in gran conto questo aspetto. La brevettazione, soprattutto in campi avanzati della tecnologia diversa dal software, è un indice di quanto la società tenga in conto la ricerca e i risultati ottenuti e di come abbia individuato una strategia di sfruttamento. Sarà eterogenesi dei fini rispetto alle ragioni per cui i brevetti sono concessi, ma in ciò esiste un elemento di verità. Inoltre, l'acquirente potrebbe avere un interesse strategico nell'acquisizione proprio in virtù del brevetto, più che della tecnologia, in funzione di presidio tattico del territorio brevettuale (sempre in una strategia MAD). Pur essendo ciò una follia in termini di public policy, dal punto di vista del potenziale target questa è una situazione di indubbio favore.
Infine un inventore potrebbe voler brevettare solo per non vedere la propria invenzione venir brevettata da qualcun altro: nella brevettazione infatti chi registra per primo vince (“first to file”). Tuttavia, non sono solo i brevetti a costituire “stato dell'arte” (“prior art”). Anche un'invenzione non brevettata può esserlo, solo che gli esaminatori dell'ufficio brevetti hanno più facilità a leggere i brevetti piuttosto che altre fonti, magari un blog o un articolo scientifico. Per questo è nata un'iniziativa che si chiama “Defensive Publications” che in maniera gratuita consente agli inventori di descrivere la propria invenzione quasi come fosse un brevetto, e depositarla in un database di quelli effettivamente consultati dagli uffici brevetti, in modo da aumentare le chances che essa sia considerata una valida prior art, senza affrontare i costi e le incertezze della brevettazione.
Carlo Piana
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Pubblicato su MySolutionPost il 24 marzo 2014