Il 31 maggio è scaduto il termine ultimo per presentare all’Agenzia delle Entrate le memorie integrative ad opera delle imprese che, entro il 31 dicembre del 2015, avevano inviato l’opzione per il regime di tassazione agevolato previsto dalla normativa sul patent box.

Come noto, con l’obiettivo di limitare la fuga all’estero dei grandi titolari di proprietà intellettuale (marchi, brevetti, modelli, design, diritti d’autore sul software) – e, auspicabilmente, anche di attrarne qualcuno dal di fuori dei confini nazionali – il legislatore consente uno sconto fiscale su quella parte di reddito riconducibile alla titolarità e all’uso dei diritti di proprietà intellettuale.

Per coloro (imprese e imprenditori) che utilizzano direttamente i diritti, cioè nella produzione e distribuzione dei prodotti, la concessione del beneficio è subordinata all’esperimento di una procedura APA (Advanced Price Agreement) che costituisce una negoziazione vera e propria tra il contribuente e l’Agenzia delle Entrate, destinata a concludersi con un accordo (cd. di ruling). L’accordo è diretto a definire in contraddittorio l’esatto contributo della proprietà intellettuale alla composizione del reddito di impresa. Nella misura del 30%, quel reddito non concorrerà a formare la base imponibile per la tassazione del 2015; l’aliquota sale al 40% per il reddito 2016 e diviene, a regime, del 50%.

Di là dai necessari miglioramenti della normativa e dalle possibili semplificazioni o chiarimenti per la procedura, si tratta, a tutti gli effetti, di una misura di indubbio vantaggio, che il legislatore ha deciso di estendere – non senza qualche difficoltà – anche alle piccole e medie imprese. Entro la fine di maggio le imprese che hanno fatto istanza dovranno fornire all’Agenzia delle Entrate gli elementi per poi procedere al ruling.

Ciascuno sarà curioso di capire la misura effettiva del beneficio riconosciuto, una volta stipulato l’accordo di ruling, e quindi le tasse risparmiate. Ma gli imprenditori avranno anche un’occasione, che non si sa quanto consapevolmente creata dal legislatore; ciascuno potrà misurare in modo concreto il ritorno sull’investimento per la proprietà intellettuale (brevetti, marchi, modelli, diritti d’autore, know-how) sulla quale negli anni ha investito, pagando tasse, consulenti, traduzioni e ogni altra sorta di spesa talora incomprensibile. Ciascuno saprà quanto del proprio fatturato è riferibile al possesso e al godimento delle privative e scoprirà se il contributo è sostanziale o se si sarebbe potuto fare di più.

C’è il sospetto, infatti, che molte imprese italiane, soprattutto medie, investano intelligentemente nella difesa delle proprie quote di mercato e la proprietà intellettuale – l’hanno imparato a proprie spese – è un presidio formidabile e talvolta insostituibile. Il problema è che le esclusive non basta averle; bisogna esercitarle, amministrarle, gestirle e, possibilmente, misurarne il beneficio reale in maniera organica e costante. La proprietà intellettuale non è un orpello della ricerca e sviluppo, di cui l’impresa occasionalmente dispone, scollegata dalle altre dimensioni aziendali, come l’organizzazione delle risorse umane, l’amministrazione finanziaria, la produzione, il marketing. La proprietà intellettuale è un elemento pervasivo della vita d’impresa che concorre alla generazione del reddito.

Se l’Agenzia delle Entrate – e questo è un auspicio – riuscirà a raccogliere e strutturare i dati rivenienti dalle procedure di ruling, si potrà prima di tutto capire quanto le imprese italiane, per tipologia, settore, dimensione, presenza internazionale, sono ricche di proprietà intellettuale e quanto effettivamente ne beneficiano, in termini di generazione del reddito. Ciascuno potrà fare esercizi di benchmarking e sebbene sia difficile confrontarsi sul terreno dell’intangibile, ogni impresa saprà percentualmente quanto un soggetto terzo (e auspicabilmente imparziale) come l’Agenzia delle Entrate è disposto a riconoscere il valore differenziale della proprietà intellettuale rispetto a una attività che potrebbe svolgersi, in alternativa, anche senza il beneficio delle esclusive. Sarà allora che le imprese potranno effettivamente chiedersi quanto il gioco sia valso la candela e, in alcuni casi, potranno rendersi conto di quanto valore inespresso hanno generato e potrebbero sfruttare.

Certo, il risparmio fiscale – in un Paese dove la tassazione raggiunge livelli scoraggianti – è una buona notizia, ma quando il saggio indica la luna, non ci si deve limitare a guardare il dito. La grande lezione del patent box, che sia voluta o occasionale, è che quando si parla della proprietà intellettuale come difesa del vantaggio competitivo, non si sta indulgendo a una affabulazione giornalistica o alla solita declamazione accademica. Si sta dicendo, molto più concretamente, che il beneficio è misurabile e come tutti gli esercizi di misurazione questo non può lasciare l’impresa indifferente. Chi ha fatto bene, potrà fare sempre meglio e chi è deluso dalle aspettative, sconfortato da una percentuale piccola e impietosa, dovrà chiedersi come mai, a fronte di una spesa significativa nell’intangibile, il ritorno sull’investimento non è quello che ci si attendeva.