19 aprile 2022
La tutela dei segni identificativi di un partito politico
Il Tribunale di Roma, nell'ambito di un ricorso ex art. 700 c.p.c., ha affrontato il tema della tutela dei segni identificativi di un partito politico soffermandosi sulla questione del rapporto tra la disciplina dettata per i diritti della personalità dal Codice civile e quella in materia di marchi d’impresa e segni distintivi di cui alle norme speciali del Codice della proprietà Industriale.
Nell'ambito di un ricorso ex art. 700 c.p.c. il Partito Liberale Italiano - associazione regolata dagli artt. 36 e ss. cod. civ. e partito politico iscritto al Registro nazionale dei partiti politici riconosciuti - ha chiesto al Tribunale di Roma, sezione specializzata in materia di imprese, di ordinare d’urgenza al Partito Liberale Europeo “la cessazione dell’utilizzo del marchio figurativo e denominativo, nonché della denominazione sociale “PARTITO LIBERALE EUROPEO”, effettuato in violazione dei marchi registrati di sua titolarità e della denominazione – precedentemente adottata – “PARTITO LIBERALE ITALIANO”.
Il Tribunale di Roma con decisione in analisi (Tribunale di Roma, sez. XVII spec. in materia di imprese, ordinanza 16 dicembre 2021) nell'esaminare il caso ha effettuato delle importanti precisazioni.
In via preliminare il giudice romano sottolinea che nell’affrontare il tema della tutela dei marchi di titolarità di partiti politici occorre innanzitutto riflettere sul rapporto e sul coordinamento tra la disciplina dettata per i diritti della personalità (in primis il diritto al nome), di cui agli artt. 6 e 7 del Codice civile, e quella in materia di marchi d’impresa e segni distintivi di cui alle norme speciali del Codice della proprietà industriale, che la giurisprudenza ritiene applicabili, in via analogica, alle associazioni non riconosciute, e dunque anche ai partiti politici (cfr. Trib. Roma 26 aprile 1991).
Al riguardo, dottrina e giurisprudenza concordano nel ritenere che i segni identificativi di un partito politico godono di due distinte tutele: l’una, inerente ai diritti della personalità dei gruppi organizzati, fondata sull’art. 7 del Codice civile, volta ad impedire a terzi di appropriarsi di tale nome, con pregiudizio alla capacità dello stesso [del nome o denominazione] di individuare esclusivamente l’ente “inteso come complesso delle caratteristiche morali, sociologiche ed economiche che lo contraddistinguono nel contesto sociale nel quale opera”; l’altra, basata sulla disciplina dei segni distintivi di cui alle disposizioni del Codice della Proprietà Industriale, “operante invece esclusivamente sul piano delle relazioni economiche dell’associazione e volta ad impedire l’utilizzo, da parte di soggetti che operino con essa in concorrenza, di un nome confondibile” (cfr. Trib. Torino, ord., 12 marzo 2010).
In buona sostanza, la giurisprudenza ritiene che la disciplina dei marchi trovi applicazione laddove “il soggetto politico svolga attività di carattere commerciale”, in quanto “volta a soddisfare esigenze di carattere prevalentemente economico”, mentre i diritti della personalità (come quello al nome o all’identità personale), operano su un piano differente, di identificazione dell’ente e del relativo “patrimonio morale unico e caratteristico”, tutelando la riconoscibilità degli stessi di fronte agli elettori.
La dottrina, inoltre, non ha mancato di sottolineare come il rapporto tra le diverse formazioni politiche sia improntato sostanzialmente a canoni di “concorrenza”, almeno rispetto al pubblico degli elettori, in un modo non molto dissimile al rapporto tra imprese nei confronti dei consumatori. Non è escluso, dunque, che i partiti politici possano svolgere anche attività di stampo commerciale, legate ad attività editoriali, nonché di comunicazione, propaganda e merchandising, sfruttando la notorietà del segno. Può così accadere che i segni indentificativi dei partiti assumano anche i caratteri propri dei marchi d’impresa.
In linea con quanto appena affermato, viene osservato sul piano della tutela del diritto industriale che la disciplina dei segni distintivi prevede all’art. 8 co. 3 CPI che “se notori, possono essere registrati o usati come marchio solo dall’avente diritto, o con il consenso di questi, … i segni usati in campo artistico, letterario, scientifico, politico o sportivo, le denominazioni e sigle di manifestazioni e quelli di enti ed associazioni non aventi finalità economiche, nonché gli emblemi caratteristici di questi”. Tale disposizione introduce una riserva assoluta della legittimazione alla registrazione (e, oggi, anche dell’uso) di segni dotati di una notorietà pregressa, anche in campo politico, a favore dei soggetti cui spetti la titolarità di quei segni. Essa, coerentemente con il superamento, operato nel 1992 con la riforma della allora Legge Marchi, della necessità della qualifica di imprenditore per la registrazione di un marchio, ammette (contrariamente a quanto avveniva in passato) che anche il non-imprenditore (come ad es. un partito politico) a cui spetti la titolarità di un segno notorio, possa registrarlo e possa impedire a terzi di impiegare segni identici o simili nell’attività economica.
Ciò, secondo la dottrina, rende ancora più solida la protezione del nome dei partiti politici contro gli usi usurpativi in senso ampio, volti cioè a sfruttare economicamente la carica suggestiva della notorietà delle associazioni stesse. Ne discende allora che, le norme dettate dalla legislazione speciale a tutela dei segni distintivi coinvolgono una sfera di interessi più ampia rispetto a quelli che entrano in gioco in presenza della disciplina codicistica in materia di nome e questo in ragione anche del fatto che il marchio non svolge più soltanto la funzione di indicatore di provenienza, bensì anche una funzione evocativa e comunicazionale, ben più facilmente oggetto di violazione da parte di terzi.
Per quanto riguarda invece la forma di tutela inerente ai diritti della personalità dei gruppi organizzati fondata sull’art. 7 cod. civ., viene osservato che, secondo la costante giurisprudenza di legittimità e di merito, ai partiti politici si applica, in linea generale, la disciplina valevole per le associazioni non riconosciute.
Queste ultime, quali centri di imputazione di situazioni giuridiche, e quindi soggetti di diritto, distinte dagli associati beneficiano della tutela della propria denominazione, che si traduce nella possibilità di chiedere la cessazione di fatti di usurpazione (ossia, di indebita assunzione di nomi e denominazioni altrui quali segni distintivi), la connessa reintegrazione patrimoniale, nonché il risarcimento del danno ex art. 2059 cod. civ., comprensivo di qualsiasi conseguenza pregiudizievole della lesione dei diritti immateriali della personalità, compatibile con l'assenza di fisicità e costituzionalmente protetti, quali sono il diritto al nome, all'identità ed all'immagine dell'ente (Cass., 16 giugno 2020, n. 11635; Cass. 15 novembre 2015, n. 23401; Cass. 11 agosto 2009, n. 18218; Cass. 26 febbraio 1981, n. 1185).
Tra le situazioni giuridiche soggettive di cui sono titolari le associazioni non riconosciute ed i partiti politici costituiti in tale forma, sono compresi i cd. diritti della personalità e non vi è dubbio che tra le dette situazioni soggettive devono farsi rientrare quelle relative alla denominazione e al simbolo, in quanto solo attraverso di essi l’ente viene individuato nella comunità sociale.
In questa prospettiva, la migliore dottrina ha sottolineato come la disciplina del nome civile va interpretata in senso ampio, sì da comprendere tutti i segni distintivi secondari che svolgano una funzione assimilabile al nome, quali l’acronimo, il logo, il simbolo e gli emblemi e così anche quei particolari segni o simboli che abbiano anche solo fattualmente assunto un valore identificativo. Nello stesso senso, si è pronunciata la giurisprudenza laddove ha affermato che “le associazioni non riconosciute, nella specie un partito politico, hanno diritto alla tutela del nome, della identità personale e di ogni altro attributo individualizzante desumibile anche in via analogica dalla disciplina dettata dall’articolo 7 c.c. con riferimento al diritto al nome” (Trib. Roma 13 aprile 1995).
In siffatta cornice di riferimento, la valutazione della sussistenza della violazione del diritto esclusivo del PLI all'uso della propria denominazione e del proprio simbolo, va effettuata sulla base del giudizio di confondibilità tra la denominazione “PARTITO LIBERALE ITALIANO” e la denominazione “PARTITO LIBERALE EUROPEO” adottata successivamente dal PLE.
A tale riguardo, parte resistente sostiene che la denominazione “PARTITO LIBERALE ITALIANO” sia priva di novità e comunque meramente descrittiva, in quanto composto da tre parole facenti parte del linguaggio comune ed aventi un’indiscutibile aderenza concettuale con ciò che con esse si intende contraddistinguere, vale a dire un partito politico, appunto, operante in Italia e ispirato alla dottrina liberale. Asserisce pertanto la resistente che, su nessuna di tali parole il PLI può esercitare alcuna forma di monopolio, tantomeno nel caso di specie in cui la denominazione del concorrente politico, per l’appunto quella di “PARTITO LIBERALE EUROPEO”, risulti sufficientemente differenziata.
Viene dunque in rilievo il tema della scarsa capacità distintiva dei segni che impiegano espressioni descrittivo-generiche, comuni nello specifico settore di operatività, quali “sociale”, “democratico” etc. e, nel caso di specie, “liberale” e “italiano”.
In materia di capacità distintiva, giurisprudenza e dottrina affermano che “ai segni di identificazione delle associazioni non riconosciute si applicano le norme che disciplinano i segni distintivi dell’impresa, in quanto espressione di un’esigenza di carattere generale di chiarezza e di non confondibilità” (Trib. Roma 26 aprile 1991, cit.), oltre che più idonee “a regolare i criteri di confronto tra i segni distintivi utilizzati per i partiti ai fini del giudizio di confondibilità”.
In un recente arresto, la la Corte di Cassazione, dopo aver aderito al principio secondo il quale la confondibilità dei segni identificativi dei partiti politici va apprezzata in termini non analitici, ma globali e sintetici, ha cassato la sentenza di secondo grado per il fatto di aver “valorizzato del tutto isolatamente il significato non distintivo dell’aggettivo «sociale»” (Cass., 16 giugno 2020, n. 11635, cit).
Si può pertanto affermare che, se per un verso è possibile che certe denominazioni di partiti politici si qualifichino alla stregua di “marchi deboli”, per altro verso, in coerenza con i principi più evoluti in materia di segni distintivi, non basteranno modificazioni irrilevanti per escludere la confondibilità, occorrendo invece che esse risultino idonee ad essere percepite dal pubblico degli elettori con effettivo valore differenziante.
Più chiaramente, se le modifiche introdotte successivamente da un nuovo partito non escludono il rischio di confusione con il precedente, comportando così una scorretta identificazione nella comunità sociale dei due partiti in reciproca competizione, i segni in conflitto, ancorché “deboli”, devono qualificarsi come confondibili.
Con riguardo al caso di specie, va osservato che entrambi i segni a confronto si compongono di tre parole di per sé descrittive e che utilizzate congiuntamente compongono segni identificativi dotati di scarsa capacità distintiva. Mentre le prime due parole “partito liberale” sono identiche in entrambi i segni in conflitto, la denominazione del PLE si distingue da quella del PLI soltanto per la diversità della terza parola, laddove in luogo di “italiano” viene utilizzato l’aggettivo “europeo”.
Nel confronto tra le due denominazioni in conflitto, non rilevano le ulteriori differenze presenti nella parte figurativa dei rispettivi simboli politici, ma è tuttavia ovvio che, in caso di accertamento dell’usurpazione del nome, il partito che ha violato il diritto al nome altrui non può utilizzare la denominazione ritenuta confondibile neppure nel proprio simbolo, indipendentemente dal fatto che le parti figurative dei rispettivi simboli non siano tra di loro confondibili.
Posto che la confondibilità delle denominazioni a confronto va apprezzata in termini globali e sintetici, non analitici, contrasterebbe con principi sanciti anche recentemente dai giudici di legittimità valorizzare del tutto isolatamente il significato non distintivo dell'aggettivo "europeo" presente nel PLE, in luogo di quello “italiano” presente nel PLI, al fine di escludere qualsiasi pericolo di confondibilità di tali enti da parte del pubblico degli elettore e la conseguente confusione sugli elementi essenziali che caratterizzano ciascuno di esso come entità propria nella comunità sociale.
In realtà, l’utilizzo dell’aggettivo “europeo” da parte del PLE, in luogo di quello “italiano” utilizzato precedentemente dal PLI, non appare una modifica o differenziazione sufficientemente rilevante ed idonea ad escludere il pericolo di confondibilità e l’errata identificazione nella comunità sociale dei due partiti politici in causa, ove si consideri che sono entrambi italiani e operano in posizione di diretta e immediata competizione tra di loro. Difatti, gli aggettivi “europeo” e “italiano” pur richiamando, in astratto, una diversa vocazione elettorale delle due formazioni politiche, in concreto non risultano modificazioni sufficientemente idonee ad essere percepite dagli elettori italiani con effettivo valore differenziante, trattandosi di formazioni politiche italiane (entrambe con sede in Roma), che svolgono la loro attività sul territorio italiano e partecipano contemporaneamente a competizioni elettorali in Italia a livello sia politico che amministrativo. Inoltre, Sia il PLI che il PLE potrebbero partecipare contemporaneamente alle elezioni europee. In tal modo, gli elettori sarebbero facilmente indotti a confondersi sulla reale esistenza di due distinti partiti, potendo ragionevolmente ritenere che si tratti di denominazioni simili assunte dallo stesso “Partito Liberale” in funzione della sua partecipazione ad elezioni italiane o ad elezioni europee.
Una tale situazione genera, nel confronto tra la denominazione “Partito liberale italiano” e “Partito liberale europeo” un concreto rischio di confusione e di inganno nel pubblico degli elettori, potenziali destinatari dell’attività del PLI.
Diversamente opinando si perverrebbe all’errata conclusione secondo la quale non sarebbero confondibili denominazioni del tutto simili di partiti politici italiani, differenziate soltanto sulla base dell’aggettivo riguardante soltanto l’ambito territoriale regionale o locale in cui ciascuno di essi opera, ad es. Partito liberale italiano, da una parte, e Partito liberale laziale o romano, ecc., dall’altra. Appare evidente che il pubblico degli elettori italiani non percepirebbe in tali aggettivi un effettivo valore differenziante tra le due distinte formazioni politiche, ma tenderebbe a ritenere che si tratti di sezioni regionali o locali del medesimo partito, finendo così per confondere quegli elementi essenziali che caratterizzano ciascun partito come autonomo ed indipendente centro di attività, di opinioni e di pensiero.
La soluzione del problema della confondibilità sarebbe evidentemente diversa qualora si trattasse di partiti politici costituiti in Paesi diversi e l’aggettivo differenziante venisse utilizzato al fine di individuare un diverso Stato di origine e di operatività di ciascuno di essi (ad es., Partito Liberale Italiano e Partito Liberale Francese).
In conclusione, all’esito di un sommario giudizio di confondibilità sintetico e globale, non può riconoscersi all’aggettivo “europeo” utilizzato dal PLE una modifica sufficientemente rilevante, tale da escludere il pericolo di confusione con la precedente denominazione adottata dal PLI.
Alla stregua dei predetti principi, il Tribunale di Roma ha ordinato al Partito Liberale Europeo la cessazione immediata, in ogni forma e con qualsiasi mezzo, anche all’interno del simbolo e tramite la rete internet, della denominazione “PARTITO LIBERALE EUROPEO”.