• Diritti di proprietà industriale - Aspetti generali

27 novembre 2023

Play IP: la tutela degli asset intangibili nel mondo dello (e-)Sport

Lo scorso 7 novembre INDICAM in collaborazione con Sprint Soluzioni Editoriali ha organizzato un Webinar sulla piattaforma online "Liverooms" intitolato "La tutela degli asset intengibili nel mondo degli (e-)sport", in cui è stato posto al centro del dibattito il rapporto tra il mondo dello sport e i diritti di proprietà intellettuale. Nella tavola rotonda, infatti, la trattazione ha toccato punti importanti quali il diritto all'immagine dei giocatori sportivi, i contratti di sponsorizzazione, in cui si pubblicizzano brand sfruttando la notorietà dei protagonisti del mondo dello sport, la tutela dei marchi sportivi e il fenomeno degli E-Sports, ossia il videogiocare in maniera competitiva e spettacolare, che attira sempre più l'attenzione degli sponsor, in vista della crescente rilevanza sotto il profilo economico.

   
Il primo relatore a prendere la parola è l’Avv. Fabio Ghiretti, Partner IP Department Mondini Bonora Ginevra, con un intervento dedicato a Sport e diritto all’immagine”, in cui viene in primis richiamata la norma fondamentale in tema di diritto all'immagine, cioè il ritratto di una persona, il suo aspetto fisico, che si trova nell'articolo 96 della legge sul diritto d'autore (o l.d.a.), il quale sancisce il principio generale per cui il ritratto di una persona non può essere mai esposto, riprodotto o messo in commercio senza il consenso di questa, stabilendo un diritto di privativa.

Analoga norma è contenuta nell'articolo 10 del codice civile, relativo all'"Abuso dell'immagine altrui" ai sensi del quale: “qualora l'immagine di una persona o dei genitori, del coniuge o dei figli sia stata esposta o pubblicata fuori dei casi in cui l'esposizione o la pubblicazione è dalla legge consentita, ovvero con pregiudizio al decoro o alla reputazione della persona stessa o dei detti congiunti, l'autorità giudiziaria, su richiesta dell'interessato, può disporre che cessi l'abuso, salvo il risarcimento dei danni”.

Il successivo articolo 97 della legge sul diritto d'autore (o l.d.a.) stabilisce tuttavia tutta una serie di eccezioni a questo principio generale, cioè casi in cui l'immagine e il ritratto di una persona può essere esposta anche senza il suo consenso, e di questi casi l'ipotesi indubbiamente più rilevante è quella che ha dato adito anche alla maggiore elaborazione giurisprudenziale, ossia l'ipotesi in cui la riproduzione dell'immagine della persona sia giustificata dalla notorietà della persona stessa.

Nella trattazione emerge il dato interessante che con l'affermarsi della società dei consumi, vengono ad evidenziarsi utilizzi anche ulteriori e diversi dell'immagine della persona, vale a dire utilizzi a fini commerciali, che trovano un parallelo rispetto alla disciplina dei marchi, in cui si passa da una funzione esclusivamente distintiva sia del marchio che dell'immagine, all'affermarsi, all'evidenziarsi di un vero e proprio potere di vendita del marchio rinomato, così come dell'immagine della persona rinomata.

Si comprende quindi che l'immagine di una persona, di una persona nota, in particolare, non ha esclusivamente una finalità informativa, ma ove abbinata a prodotti di consumo, ha un autonomo potere di vendita, cioè la gente compra quel prodotto se ed in quanto non per le sue qualità intrinseche, ma perché abbinato all'immagine di una persona famosa, risultando abbastanza evidente il parallelismo rispetto a quanto avviene in relazione ai marchi, all'affermarsi dei marchi notori.

A tal proposito il relatore richiama il principio affermato dalla sentenza della Cassazione [il caso Mazzola, Cass. 10 novembre 1979, n. 5790], che sostanzialmente pone una evidente differenza, uno spartiacque tra utilizzo a finalità informative e utilizzo con finalità commerciali, affermando che “L’abbinamento tra l’immagine di un calciatore e un bambolotto non può trovare alcuna giustificazione né nell’interesse pubblico all’informazione, e neppure nella rinuncia implicita al diritto alla riservatezza, in quanto non finalizzato alla maggiore conoscenza all’immagine da parte del pubblico, ma unicamente a favorire la maggiore diffusione del prodotto, sfruttando il richiamo di tale immagine e conseguentemente il condizionamento psicologico che si crea nel pubblico che è indotto a preferire il prodotto non per la sua bontà intrinseca.”

Evidente il parallelismo rispetto a quanto avviene in tema di marchi – aggiunge il relatore – poiché il marchio rinomato contraddistingue il prodotto e induce il consumatore a preferirlo non già in ragione della sua bontà intrinseca, ma in ragione del valore suggestivo evocato dal marchio.

La decisione accerta poi conclusivamente la sussistenza di un diritto di esclusiva dell'immagine sotto il profilo patrimoniale e dunque in relazione all'interesse di ricevere un compenso in moneta per il consenso che si offre di prestare per l'atto di disposizione del proprio diritto.

In questo modo – evidenzia il relatore la nostra giurisprudenza si allinea ad un principio che da tempo era già stato affermato nell'ordinamento statunitense e negli ordinamenti anglosassoni, cioè il riconoscimento del cosiddetto “right of publicity”, il diritto di una persona nota di ricevere un compenso dello sfruttamento a fini commerciali della sua immagine, ossia «The right of a person to control and benefit from the commercial value of his name, likeness, performance, style and the like».

La giurisprudenza limita l'ambito di applicazione dell'articolo 97 l.d.a. alle sole ipotesi in cui l'utilizzo dell'immagine avvenga per finalità informative, mentre se la diffusione dell'immagine avviene per finalità diverse, e dunque per finalità prevalentemente commerciali, l'utilizzo dell'immagine della persona propria è vietato, dunque non trova applicazione la scriminante dell'articolo 97 citato.

La posizione della giurispudenza sull’argomento è ben sintetizzata in Cass. 2 maggio 1991, n. 4785, in cui si afferma che:

la divulgazione del ritratto di una persona notoria è lecita, ai sensi dell'art. 97 della legge sul diritto di autore, solo se risponde ad esigenze di pubblica informazione e cioè allo scopo di far conoscere al pubblico le fattezze della persona in questione e di documentare visivamente le notizie che, relativamente ad essa, vengano diffuse; mentre, ove detta divulgazione avvenga per fini diversi, come quello pubblicitario, la mancanza di autorizzazione da parte dell'interessato rende illecito tale comportamento, obbligando l'autore al risarcimento del danno ex art. 2043 cod. civ.”.

Nella relazione vengono quindi tratte la conclusione che l’uso dell’immagine della persona nota:

  • è lecito solo se risponde ad esigenze di pubblica informazione, con lo scopo di fare conoscere al pubblico l’aspetto del personaggio in questione o di documentare visivamente notizie che lo riguardano;
  • è illecito se la divulgazione dell’immagine ha finalità di lucro e non è giustificata da finalità informative connesse ad un contenuto di pubblico interesse o, comunque, se il fine di lucro prevale sulla finalità informativa.

L’avvocato mette giustamente in risalto il problema che consegue a questa ricostruzione, ovverosia che proprio nel settore sportivo assistiamo a un mercato caratterizzato da una pluralità di prodotti e di iniziative che si pongono in qualche modo a cavallo tra questi due finalità e di cui è dunque abbastanza difficile capire se si pongono nell'uno o nell'altro settore.

Si pensi al “caso Van Basten richiamato, a tal proposito, dal relatore, in cui, a fronte della tesi difensiva della parte convenuta, che aveva invocato la finalità informativa, il valore storico enciclopedico delle videocassette raffiguranti il noto calciatore, il Tribunale decidente ha affermato che tale iniziativa non poteva essere realizzata senza il consenso del calciatore, ritenendo smentito l’asserito valore storico-enciclopedico delle videocassette a fronte del fine di lucro [Trib. Tortona, 24 novembre 2003].

Nello stesso senso si esprime qualche tempo dopo il Tribunale di Napoli in relazione al “caso Maradona” riguardante la messa in commercio di una videocassetta che conteneva i 100 gol più importanti del calciatore Diego Armando Maradona affiancati, paragonati ai 100 gol più importanti di Edinson Cavani, in cui l’organo decidente afferma che lo scopo di lucro prevale su quello di informare il pubblico.

Una conferma deriva dall'art. 3 della L. n. 91/1981, nella parte in cui prevede che la squadra di calcio, datore di lavoro, «acquisisce il risultato della prestazione subordinata che assume rilevanza nella sua complessità di attività agonistica e risultato della stessa nella sua successiva utilizzazione», ma non stabilisce affatto che chi assume un atleta professionista acquisisca anche il diritto ad utilizzare senza il suo consenso le immagini delle sue prestazioni, quindi anche per l’atleta l’immagine della prestazione di lavoro è cosa diversa dalla prestazione stessa.
 

La seconda relazione del Webinar presentata dal Prof. Luigi Mansani, docente dell’Università di Parma, è incentrato sul rapporto tra “Sport e marchi, il quale nella sua esposizione ricorda che quando venne varata la nuova legge marchi, in attuazione della direttiva, venne inserita nella legge una norma che oggi è quella dell'articolo 8.3 del Codice della proprietà intellettuale (o c.p.i.), dedicato a "Ritratti di persone, nomi e segni notori" ai sensi del quale:

Se notori, possono essere registrati o usati come marchio solo dall'avente diritto, o con il consenso di questi, o dei soggetti di cui al comma 1: i nomi di persona, i segni usati in campo artistico, letterario, scientifico, politico o sportivo, le immagini che riproducono trofei, le denominazioni e sigle di manifestazioni e quelli di enti ed associazioni non aventi finalità economiche, nonché gli emblemi caratteristici di questi”.

Il termine “usati” è messo in evidenza dal relatore perché, riferisce, questa norma è stata concepita per impedire una registrazione abusiva da parte di un non avente diritto di un segno che ha acquisito notorietà in altro modo e, quindi, uno sfruttamento indebito della reputazione attraverso la registrazione come marchio.

Aggiunge poi che questa norma desta perplessità perché nella legge marchi la tutela della notorietà è attribuita ai marchi dotati di rinomanza, i quali, tuttavia, per godere di questa protezione devono soddisfare una serie di condizioni dettate dall’articolo 20 c.p.i., relativo ai "Diritti conferiti dalla registrazione" ai sensi del quale:

1. I diritti del titolare del marchio d'impresa registrato consistono nella facoltà di fare uso esclusivo del marchio. Il titolare ha il diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, di usare nell'attività economica: 

(…)

c) un segno identico o simile al marchio registrato per prodotti o servizi anche non affini, se il marchio registrato goda nello stato di rinomanza e se l'uso del segno, anche a fini diversi da quello di contraddistinguere i prodotti e servizi, senza giusto motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli stessi”.

La situazione paradossale che, secondo il Professore, viene a crearsi è dunque la seguente: nel caso in cui sia avvenuta la registrazione di un marchio, perché ha acquisito notorietà es. in ambito sportivo, tale marchio godrà di una protezione che è condizionata da una serie di fattori, cioè dovrà prima di tutto essere fornita la prova dell'avvenuta registrazione, la prova della rinomanza, la prova dell'esistenza di un nesso con il marchio nella mente del pubblico, tra il marchio e quello del preteso contraffattore, si dovrà dimostrare che il preteso contraffattore ne fa uso senza giusto motivo e che questo uso trae vantaggio indebitamente dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio celebre, oppure reca ad esso pregiudizio.

Mentre nessuna di queste prove è invece richiesta nel caso in cui ci si avvalga della protezione di cui all’articolo 8.3 c.p.i., poiché in questo caso è sufficiente la dimostrazione della notorietà per impedire l'uso di questo segno a chiunque, in qualunque settore merceologico, a prescindere dal nesso che si possa istituire, a prescindere dal fatto che il segno sia stato registrato o meno, a prescindere dal fatto che ci sia un giusto motivo per farne uso o che ci sia un approfittamento del carattere distintivo della rinomanza o un pregiudizio arrecato a questo; il pregiudizio in qualche modo si desume dalla lettera della norma.

Quindi per un per un certo verso la registrazione di questi marchi potrebbe paradossalmente portare ad una tutela meno incisiva di quella che viene accordata in assenza di registrazione.

Tra le cose che si possono dire riguardo ai marchi in generale applicati nel mondo dello sport, un tema sicuramente di interesse è rappresentato dal fatto che il requisito della rappresentabilità grafica è stato recentemente eliminato (art. 7 c.p.i. afferente all' "Oggetto della registrazione").

Possono essere oggetto di registrazione tutti i segni, in particolare parole, nomi di persone, lettere e cifre, purché siano idonei ad "essere rappresentati graficamente": questo presupposto è stato eliminato, essendo sufficiente adesso che siano invece idonei a distinguere un prodotto di un'impresa da quelli di un'altra impresa e ad essere rappresentati nel registro in modo da consentire alle autorità competenti e al pubblico, cioè a chi consulta il registro, di determinare con chiarezza e precisione l'oggetto della protezione.

Pertanto, prosegue il relatore, l'elemento fondamentale che il marchio deve avere, la qualità fondamentale che il marchio deve possedere è di essere idoneo a distinguere i prodotti o i servizi di un'impresa da quelli di altre imprese, quindi possedere carattere distintivo, inteso come qualcosa che dipende dal segno in sé considerato, ma dipende anche da tanti fattori, cioè dal modo in cui il marchio viene utilizzato, viene pubblicizzato, viene ad affermarsi sul mercato.

E' un concetto dinamico perché il carattere distintivo può restringersi o allargarsi nel corso del tempo, a seconda del modo in cui il marchio viene utilizzato, ed è forse anche questo che rende particolarmente affascinante e complessa questa materia, commenta il Professore. L'elemento fondamentale della protezione non è statico, ma se si investe sul proprio marchio si può avere un ambito di protezione più ampio perché il carattere distintivo si accresce e viceversa, se non si protegge il proprio marchio a sufficienza, il suo carattere distintivo diminuirà e si arriverà a non avere più protezione o addirittura a perdere il diritto di esclusiva.

Infatti, sottolinea il relatore, ai sensi dell’art. 13 c.p.i., dedicato agli “Impedimenti assoluti alla registrazione”, sono esclusi dalla registrazione, inter alia, i marchi privi di carattere distintivo, i marchi cosiddetti marchi descrittivi, ed i marchi composti esclusivamente da segni o indicazioni che siano divenuti di uso comune nel linguaggio corrente o nelle consuetudini leali e costanti del commercio.

Tali marchi, viene messo in risalto nella relazione, in base al terzo comma della stessa norma possono essere in qualche modo riabilitati, quindi il divieto di registrazione di questi marchi, cioè la norma in base alla quale sarebbe esclusa dalla registrazione un marchio privo di carattere distintivo, un marchio descrittivo o un marchio generico, trova un'eccezione nel fatto che se il marchio ha acquistato in tutto o in parte per i prodotti o servizi per cui si chiede la registrazione un carattere distintivo, allora sarà un marchio valido.

Questo fenomeno viene chiamato nei Paesi anglosassoni secondary meaning, proprio a significare che il marchio ha acquisito un significato ulteriore rispetto a quello della parola che lo identifica nel linguaggio comune, per diventare, appunto, un segno distintivo di una specifica impresa.

Il secondary meaning è l'effetto di una variazione della percezione del pubblico interessato, che cessa di avvertire il segno come denominazione generica, indicazione descrittiva o modalità di presentazione generalizzata di un'intera classe di beni, per apprezzarlo invece come indicatore della provenienza da un'impresa determinata.

A tal fine viene richiamato come esempio, per quanto di interesse in questa sede, la “Gazzetta dello Sport” che, pur essendo una combinazione di parole generiche e di uso comune, è ormai identificata nel pubblico dei consumatori con il noto quotidiano sportivo.

L'effetto contrario è la perdita del carattere distintivo che nasce da una percezione mutata del pubblico, però, in questo caso un termine che prima era un valido marchio, che identificava dei prodotti come provenienti da un'impresa determinata, diventa invece un segno che accomuna genericamente una pluralità di prodotti di diversa origine.

Ai sensi dell’articolo 13.4 il marchio decade se, per il fatto dell'attività o dell'inattività del suo titolare, sia divenuto nel commercio denominazione generica del prodotto o servizio o abbia comunque perduto la sua capacità distintiva.

Precisa il relatore che, in caso di decadenza del marchio per volgarizzazione, va valutata la mutata percezione del pubblico a cui i prodotti o servizi sono destinati, ma con riguardo all'uso commerciale, come affermato nella giurisprudenza. Infatti l'uso pur diffuso nel linguaggio corrente non è sufficiente a determinare la decadenza: occorre che il pubblico non percepisca più il termine come segno distintivo di un'unica impresa.

La Corte di Giustizia CE ha ripetutamente affermato (Puma/Sabel, Canon, Lloyd, etc.) i principi, ormai consolidati, secondo cui:

  • Il rischio di confusione è tanto più elevato quanto più rilevante è il carattere distintivo del marchio anteriore”;
  • I marchi che hanno un elevato carattere distintivo, o intrinsecamente o a motivo della loro notorietà sul mercato, godono di una tutela più ampia rispetto ai marchi il cui carattere distintivo è inferiore”.

Tanto più viene fornita la dimostrazione che il segno ha elevata capacità distintiva, tanto maggiore sarà la tutela ad esso attribuita, anche in relazione a segni non simili o a prodotti o servizi non affini.

Per quanto riguarda l’oggetto del Webinar, il relatore mette in evidenza le specificità dei marchi nello sport quali il carattere distintivo intrinseco spesso modesto, la grande notorietà e diffusione, che porta all’acquisto di un secondary meaning, i conflitti con il diritto di cronaca ed informazione, nonchè il fenomeno della pirateria, molto diffusa e difficile da arginare.

Viene quindi richiamato il “caso Messi” in cui il titolare del marchio denominativo “MASSI”, registrato per caschi e accessori per biciclette, ha fatto opposizione contro la registrazione, da parte del noto calciatore, del marchio esteso anche per prodotti delle stesse classi e l’opposizione è stata accolta. Messi ha fatto ricorso contro la decisione ed il Tribunale UE, 26 aprile 2018 (causa T-554/14), l’ha accolto in base a questi principi:

  • la notorietà di Messi costituisce un fatto notorio che travalica l’ambito strettamente calcistico, così da investire tutto il pubblico di riferimento, nella specie rappresentato dall’acquirente mediamente informato ed avveduto di abbigliamento ed accessori per lo sport;
  • la differenza semantica tra i segni “Massi” e “Messi” determinata dalla inevitabile identificazione di quest’ultimo segno con il nome del celeberrimo calciatore del Barcellona è tale da neutralizzare le somiglianze visive e fonetiche tra i due segni.

E’ poi citato nella trattazione il caso VR 46/Jonk 46”, in cui viene ribadito in sede giudiziale il numero "46" richiama inevitabilmente il noto motociclista Valentino Rossi, data la sua indubbia notorietà e l'associazione che, specie tra i giovani, viene effettuata tra il personaggio in questione e tale cifra usata da sempre quale suo numero di gara.

L'utilizzo di tale numero all’interno di marchi diretti ad identificare una serie di prodotti di abbigliamento e calzature destinati ad un pubblico giovanile non può che voler dire che l'utilizzatrice di tali marchi voglia sfruttare la notorietà dei marchi contenenti tale numero per ottenere un indebito vantaggio commercialeDevono ritenersi pertanto nulli i marchi "Jonk 46 Sport & Casual", “Jonk 46", e "J Fortysix 46" registrati ed utilizzati per contraddistinguere una linea di abbigliamento e calzature per giovani, in quanto anticipati dai marchi “46”, “Vale 46” e “VR 46” registrati dal noto motociclista Valentino Rossi nelle medesime classi (Trib. Bari, 13 aprile 2010).

Viene poi menzionato il caso El Pocho 7”, in cui il giudice chiamato a decidere la controversia ha affermato che lo pseudonimo ed il numero di maglia di un calciatore di serie A (nella specie Ezequiel Lavezzi detto «El Pocho») rappresentano segni notori ex art. 8 c.p.i. e che costituisce violazione dei diritti spettanti a Lavezzi sulla base dell’art. 8 c.p.i. la registrazione dei marchi «IL POCHO 7» e «EL POCHO» nel settore dell’abbigliamento intimo (Trib. Napoli, 23 luglio 2009).

Particolare interesse destano altri casi citati dal Professore tra cui il “caso Ferrari” in cui la Corte d’ Appello di Milano, sent. 22 luglio 2006, confermando la decisione del Tribunale, esclude che l’uso dei marchi Ferrari, Cavallino Rampante e Ferrari Club da parte dell’Associazione Ferrari Club di Milano costituisca contraffazione, essendo un’associazione di appassionati della casa di Maranello il cui uso dei marchi è stato tollerato per più di 10 anni.

La Cassazione (Cass. 27 novembre 2013, n. 26498) riforma la decisione, rilevando che difettano i presupposti della convalidazione e stabilendo che l’illecito da contraffazione non richiede che l'autore della violazione rivesta la qualità di imprenditore commerciale, ma soltanto che l'uso del marchio altrui sia destinato al mercato (nella specie, mediante organizzazione di raduni e manifestazioni), inserendosi in una attività commerciale con fine di lucro.

Quando i nomi ed i colori, registrati anche come marchio, di una squadra di calcio siano entrati a fare parte del patrimonio collettivo per la loro notorietà, non costituisce contraffazione di marchio l’uso che di tale marchio venga fatto da terzi nella diffusione di notizie, informazioni, prodotti (anche c.d. gadget) che in qualche modo richiamano la squadra di calcio, con il solo limite della necessità per i terzi di introdurre una anche lieve differenziazione dei propri prodotti che consenta di non attribuirli o associarli alla società sportiva (Trib. Milano, 28 novembre 1994).

Un’altro argomento che merita attenzione nell’illustrazione del relatore è il rapporto tra i nomi delle squadre ed il marchi geografici, chiarito da una sentenza della Cassazione (Cass. penale, 8 maggio 2018), dal seguente tenore:

Se è pur vero che i marchi utilizzati dalle squadre professioniste di calcio spesso evocano la denominazione geografica della città o della regione in cui gioca la squadra, tuttavia anche una denominazione geografica può essere inserita in un marchio purché l'insieme del segno, in concreto, faccia desumere l'avvenuta trasposizione del messaggio dal piano di riferimento del luogo a quello di individualizzazione del prodotto, sicché prevalendo le componenti di originalità e fantasia, l'uso del toponimo non adempia ad una funzione meramente descrittiva. Peraltro, anche ammettendo che al toponimo venga aggiunto un elemento differenziale solo minimo, quale, a titolo di esempio, la data di fondazione della società calcistica, tale segno sarà registrabile e godrà tendenzialmente della tutela del marchio debole in relazione allo stretto collegamento concettuale tra il marchio e la denominazione geografica, salvo che non venga fornita prova dell'acquisita capacità distintiva, del suo rafforzamento, attraverso l'uso dello stesso segno (c.d. secondary meaning). In tale eventualità, anche ove il segno coincida con il mero toponimo godrà della tutela del marchio forte.”


Particolare importanza rivestono in ambito sportivo i Contratti di sponsorizzazione di cui ha trattato l’Avvocato Sarah Franchina, la quale afferma che la sponsorizzazione costituisce uno strumenti principali tramite cui i brand sfruttano la propria notorietà nel settore sportivo e la definisce come “l'arte di far parlare di sé parlando d'altro”, citando una frase di Pierre Sahnoun, ritenendo tale osservazione particolarmente calzante in vista del fatto che, quando una società decide di sponsorizzare un soggetto e quindi di veicolare un proprio segno distintivo, sfrutta la notorietà altrui e dunque anche lo svolgimento di un'attività altrui, che in realtà essa stessa non fa.

Da un punto di vista concreto – precisa la relatrice – la sponsorizzazione altro non è che un accordo, ovviamente tra una società e una squadra e/o un atleta, con cui la prima fornisce agli stessi supporto che può essere sia finanziario oppure di altra tipologia (es. la fornitura di beni/servizi) in cambio di visibilità.

Emerge dalla trattazione che esistono diversi tipi di sponsorizzazione sportiva, tra cui la sponsorizzazione di squadre sportive o team (es. squadre di calcio), in cui le squadre si impegnano dietro al ricevimento di un corrispettivo, a divulgare un determinato messaggio pubblicitario, utilizzando solitamente sulle magliette piuttosto che sull'abbigliamento determinati simboli o marchi così da veicolare quello è un segno distintivo dello sponsor, il quale a sua volta, a titolo di contropartita, può comunque avvalersi delle relative immagini per propri fini pubblicitari e ha un ritorno economico molto ampio, anche strettamente legato poi all'andamento dei risultati che vengono raggiunti dalla squadra.

In questa ipotesi di sponsorizzazione molto frequente è anche il ricorso al c.d. abbinamento, ossia all'associazione del nome dello sponsor a quello della squadra che viene sponsorizzata, che è possibile trovare nel basket, nella pallavolo, nel ciclismo, mentre la Federazione calcio ha posto il suo veto per quanto riguarda il calcio.

Non c'è solitamente alcun tipo di ingerenza dello sponsor nella gestione della squadra, quindi il team è soggetto ad una sua organizzazione, alle sue normative, così come c'è un'indipendenza tra i contratti di sponsorizzazione che vengono sottoscritti dalla squadra/team e quelli dei singoli atleti, anche se i singoli atleti sono comunque tenuti a rispettare i contratti che vengono sottoscritti dalla squadra.

Una seconda tipologia di sponsorizzazione è quella che vede la sponsorizzazione di eventi sportivi: un caso emblematico è la sponsorizzazione da parte di Coca Cola delle Olimpiadi o quello della Red Bull che sponsorizza eventi assolutamente più pericolosi e rischiosi. In questo caso la sponsorizzazione di per sé è particolarmente ampia e non ci sono molti rischi legati all'eventuale ritorno negativo di immagine per l'andamento della sponsorizzazione, ma c'è un limite di durata della manifestazione stessa, quindi un limite a livello temporale che è di gran lunga maggiore rispetto alla sponsorizzazione di una squadra o un team in cui il marchio viene veicolato per un tot di partite, un tot di apparizioni.

I casi più importanti di sponsorizzazione riguardano i classici atleti (come ad. es. la tennista Serena Williams sponsorizzata dalla Nike o il ciclista Marco Pantani che sponsorizzava Mercatone uno), con riferimento ai quali si parla solitamente di una c.d. sponsorizzazione tecnica, ovverosia lo sponsor fornisce agli atleti il materiale tecnico che viene utilizzato nell’attività sportiva, quindi magliette piuttosto che scarpe, solitamente abbigliamento ma anche ad esempio biciclette, macchine etc.

In queste ipotesi, è possibile che nei relativi contratti venga anche inserito un obbligo di indossare un determinato abbigliamento, ovviamente marcato con il marchio dello sponsor, anche nel tempo libero, piuttosto che in alcune occasioni di importanza mediatica.

La relatrice passa dunque ad illustrare le caratteristiche peculiari del contratto di sponsorizzazione dal punto di vista strettamente tecnico-giuridico:

  • è un contratto atipico che la dottrina ha tentato più volte anche di catalogare, definendolo come un contratto di appalto dei servizi, un contratto di tipo associativo, un contratto di vendita e persino di locazione, senza che poi nessuna di queste figure contrattuali potesse ritenersi adeguata al contratto di sponsorizzazione, che resta pertanto non classificabile e non classificato e, quindi, contratto atipico per eccellenza a cui si applicano le relative normative;
  • un contratto a titolo oneroso e a prestazioni corrispettive;
  • un contratto caratterizzato dalla libertà delle forme, anche se, considerati gli importi elevati che derivano dai contratti di sponsorizzazione, i contratti sono tutti a forma scritta (basti pensare alle c.d. “sponsorizzazioni stellari” in cui possono essere stipulati contratti a vita con atleti molto famosi per la sponsorizzazione di marche sportive, come nel caso del calciatore David Beckham legato al marchio Adidas);
  • un contratto rientrante nella categoria dei contratti di pubblicità, in cui lo sponsor veicola nel messaggio pubblicitario il suo nome o il suo marchio principale;
  • la causa del contratto è il ritorno pubblicitario da parte dello sponsor;
  • l'obbligazione posta a carico del soggetto sponsorizzato è un'obbligazione di mezzo e non un'obbligazione di risultato, ovverosia la sua obbligazione principale è quella di divulgare i segni distintivi dello sponsor, non di realizzare un ritorno di immagine e, nonostante la giurisprudenza abbia ipotizzato l’esistenza di un obbligo di diligenza a carico del soggetto sponsorizzato, per determinare la responsabilità per inadempimento del soggetto sponsorizzato è sempre necessario fare riferimento ai principi fondamentali stabiliti per l'esecuzione di qualsiasi contratto e quindi al dovere di correttezza e di esecuzione in buona fede;
  • l’oggetto del contratto deve essere lecito;
  • la previsione di clausole di esclusiva, con il divieto di sponsorizzare marchi o prodotti della concorrenza;
  • l’inserimento di c.d.Morality Clauses”, che sono clausole introdotte in America ma che ormai trovano applicazioni anche nei contratti di sponsorizzazione dei nostri tempi, in forza delle quali lo sponsor si riserva il diritto di risolvere il contratto anticipatamente nei casi in cui il soggetto sponsorizzato venga colto in comportamenti che possono danneggiare la sua immagine, con la precisazione che tali clausole tutelano l'immagine non tanto del sponsorizzato ma dello sponsor e pongono dei limiti di interpretazioni di lecità, essendo clausole “restrittive” della libertà della persona stessa, che vanno a vincolare comportamenti che in realtà rientrano all'interno della sfera personale dell'individuo.


Gli Avv. Raffaele Ranieri e Francesco de Rugeriis hanno affrontato il tema del rapporto tra Videogiochi e sports (o E-Sports che non riguardano, invece, gli sport tradizionali), in cui, sottolinea il primo relatore, ci sono confini molto malleabili ed una reciproca invasione dal punto di vista della proprietà intellettuale.

E’ fatto noto che gli sport vengono riprodotti e ricreati nei videogiochi, ma può succedere anche il contrario come è avvenuto in Giappone dove si è creato un fenomeno di massa, che ha preso appunto il nome di “Suite Online Gaming”, in cui sostanzialmente si è verificata una traslazione del gioco di corse immaginario che vede protagonisti i personaggi più famosi del celebre videogioco della Nintendo “Mario Kart” nel mondo reale, in particolare in quello delle corse con go kart all’interno della città.

Il deposito del marchio legato all’evento, in Giappone trova l’opposizione della Nintendo sulla base del marchio “Mario Kart”, opposizione che viene rigettata prima dalla divisione di opposizione giapponese e poi davanti all'EUIPO, che dichiara che “Mario Kart” e “Super Mario” non sono marchi notori (come dire che Gucci non è un marchio notorio per gli appassionati del fashion).

Il 27 settembre 2018 la Corte Costituzionale di Tokyo dichiara che nel caso di specie è stata commessa una violazione, quindi non una contraffazione di marchio, quanto una violazione del copyright dei noti personaggi della Nintendo, cui segue una condanna risarcitoria molto elevata davanti alla Suprema Corte giapponese.

Il relatore mette quindi in evidenza che nel mondo dei videogiochi si sovrappongono con forza diversi profili che riguardano appunto il diritto della proprietà intellettuale, dai marchi al copyright e qualche volta ovviamente anche anche il design.

Nella trattazione viene chiarito come il mercato dei videogiochi abbia avuto una fioritura negli ultimi anni impressionante, ritenendosi sempre più il videogioco adatto a tutte le età e soprattutto assume connotazioni sempre più importanti, tanto che vediamo dei videogiochi che hanno i cosiddetti “Open World”, dove si rappresentano personaggi che si muovono in un ambiente pressoché illimitato e che sono delle vere e proprie produzioni cinematografiche con tanto di regia, con tanto di attori su cui si basa la creazione dello speculum virtuale.

Risulta quindi chiaro – secondo il relatore il successo che hanno i videogiochi sportivi, anche in Italia dove lo sport preferito è il calcio e l’importanza della licenza ufficiale che ha un impatto potentissimo sull’utile che verrà generato dal videogioco.

Le licenze sono importanti perché danno un riconoscimento ufficiale al gioco, quindi danno ovviamente anche la sensazione o la convinzione che si sta giocando il vero gioco, il vero calcio, con tutti i personaggi originali, le maglie originali di stadio originali, anche se non è proprio così. C'è la protezione del marchio nonché una vera e propria legittimazione nel settore e ovviamente, non da ultimo, c'è un ritorno economico molto consistente.

La mancanza di licenza può portare a problemi, innanzitutto di impatto visivo e di impatto sul consumatore, perché ovviamente si ha la sensazione di avere un prodotto scarso, di avere un prodotto che non riflette veramente la realtà.

I videogiochi rappresentano una grande opportunità commerciale per le squadre sportive con volumi di business miliardari ed il quesito che solleva il relatore è il seguente: vale la pena per una società di videogames spendere così tanto per acquistare le licenze ufficiali? La risposta non può che essere in senso affermativo considerato l’elevato ritorno economico, indotti generati non solo dalla vendita delle copie, ma anche, ovviamente, proprio perché questi giochi ormai a tutto tondo sono anche degli E-Sports.

Quando invece la licenza manca, il gioco perde il suo impatto, ergo si perdono utili nonché si rischia di affrontare problemi legali, con una perdita di opportunità di sponsorizzazioni, danni all’immagine e limiti nell’espansione.

Degne di nota sono le osservazioni conclusive del relatore sui marchi sportivi, ormai noti a livello planetario soprattutto per quanto riguarda il calcio, che proprio in ragione della loro popolarità e degli utili che generano, hanno altresì una maggiore esposizione alla contraffazione, anche in Paesi extra-UE come la Cina.

A tal proposito segnala i limiti delle sole strategie di deposito tradizionale per proteggere il marchio sportivo, che comportano costi elevatissimi, una protezione confinata al regime delle sottoclassi (in Cina non c’e’ la classificazione di Nizza) e limiti temporali per le classi in cui il marchio non sia usato. Pertanto, il relatore propone la tutela alternativa dei copyright per superare il principio di relatività del marchio e i suoi limiti, essendo unico il deposito ed unica la registrazione, che consente sostanzialmente di agire contro un contraffattore, quando ne ricorrono le condizioni, non più per la contraffazione del marchio, ma per la violazione del copyright.

In conclusione, per un’efficace tutela dei diritti di privativa suggerisce il deposito tempestivo e preventivo del marchio, incluse le sue varianti grafiche, nelle classi principali e nelle classi del merchandising, il deposito del copyright, il monitoraggio di domande usurpative e conseguenti azioni amministrative nonché il monitoraggio attivo del mercato.


Nell'intervento dedicato a E-Sports: identikit e principali criticità IP, l'ultima relazione del Webinar, l’Avv. Francesco de Rugeriis ha parlato degli E-sport e delle criticità legate ai problemi della proprietà intellettuale che li caratterizzanoChiarisce il relatore che quando si parla di E-sport, a livello fenomenologico, ci si riferisce a videogiochi giocati in maniera competitiva e spettacolare davanti ad un pubblico, con una condivisione del proprio giocare ai videogiochi con altri.

I videogiochi non riguardano solo gli sport tradizionali, anzi la maggior parte e soprattutto per la parte economicamente rilevante, i videogiochi non riguardano affatto gli sport tradizionali, ma possono essere giocati giochi di strategia, giochi di carte, giochi di gare digitali, giochi di combattimento fantastico, elementi ludici completamente diversi per le meccaniche che li caratterizzano, perché non hanno nulla a che vedere con gli sport reali.

La Federazione internazionale degli E-Sports dichiara che con E-Sport si intende «L’equo confronto, diretto o indiretto, tra due o più contendenti, caratterizzato da due elementi essenziali: l’impiego di computer, tramite supporti fisici di qualsiasi tipologia e forma, che consentano l’interazione dei contendenti tra loro e/o con il computer stesso, e l’impiego di programmi/videogiochi (i c.d. titoli videoludici), specificamente sviluppati al fine di rendere tale interazione misurabile e quantificabile in modo da determinare la prestazione migliore».

Quindi sostanzialmente vuol dire che non tutti quanti i videogiochi possono effettivamente assurgere al rango di E-Sports perché non tutti quanti i giochi hanno caratteristiche competitive, perché ad esempio un videogioco puramente narrativo, che non ha caratteristiche di misurabilità, con la successione di vittoria e sconfitta, non può essere considerato un E-Sport.

Altra precisazione del relatore: non è possibile parlare di E-Sport se un torneo di videogiochi è organizzato a livello amatoriale, richiedendosi la partecipazione di giocatori tendenzialmente professionisti (pagati da una squadra che ne cura l'allenamento, gli fornisce le divise, gli dà un nome, ne cura il marketing e gestisce i diritti), figure ben diverse dagli streamer, che, invece, sono meri intrattenitori, e, soprattutto, la presenza del pubblico, dal vivo e in streaming, come indefettibile presupposto.

Il settore dei videogiochi competitivi sta divenendo un comparto della gaming industry sempre più rilevante sotto un profilo economico, in particolare, il mercato dei videogiochi solo nel 2020 ha avuto 159 miliardi di introiti, di cui 1,8 miliardi generati solo dagli E-Sports, a fronte dei 20 miliardi del settore della musica e dei 50 miliardi di quello cinematografico.

Anche gli E-Sports, proprio perché hanno un'enorme capacità di raggiungere determinati target in tutto il mondo, senza più nemmeno la barriera geografica (arrivando a raggiungere più di 100 milioni di spettatori in streaming) attirano inevitabilmente l’attenzione degli sponsor, che investono nei tornei e vanno a sponsorizzarli, come sponsorizzano anche i giocatori, con le forme di sponsorizzazione utilizzate negli sport tradizionali.

Gran parte degli sponsor di questi tipi di eventi sono società del food, spesso, anche se non sempre, junk food e non mancano certo le sponsorizzazioni tecniche, anche perché i materiali da gaming sono materiali estremamente costosi che devono essere gestiti, assicurati e spostati.

Il relatore ricorda, in linea con quanto affermato nella relazione precedente riguardante i contratti di sponsorizzazione, che anche in questo caso si può ricorrere alle “morality clauses”, con tutte le criticità già messe in rilievo dall'Avv. Franchina, e che la sponsorizzazione di un brand viene anche utilizzata per veicolare dei valori, arrivando a parlare in questo caso di brand value advertising”.

Poi particolare rilevanza in questo settore hanno i publisher, che sono coloro che hanno i diritti di proprietà intellettuale sui videogiochi, che non necessariamente li sviluppano, ma li producono, li finanziano, delegando lo sviluppo ad un terzo, li distribuiscono, gestendone tutti gli aspetti, anche di comunicazione, a livello globale.

Sono i publisher che autorizzano l’utilizzo torneistico dei videogiochi da parte delle leghe, che organizzano e definiscono le regole dei tornei, svolgendo un ruolo che nei tornei sportivi più tradizionali svolgono le macro-federazioni, perché impiegano un'opera protetta dai diritti di proprietà intellettuale.

Ci sono quelle che si chiamano Community licences, quindi licenze, community standard che riguardano i tornei minori, quindi non commerciali, compresi fino a massimo 2.000 euro con al massimo uno sponsor solo sul web.

Il relatore accenna brevemente anche all’evoluzione della protezione giuridica dei videogiochi in Italia: dall’assenza di tutela si è passati alla definizione di videogioco come opera cinematografica, essendoci una rappresentazione di una trama, dei personaggi ed uno sforzo narrativo e professionale, poi, dopo aver escluso tale definizione per la presenza di un’interattività, ossia una percezione della vicenda narrata “dall’interno” che differenzia il videogioco dal cinema, si è considerato un software, con l’estensione anche ai videogiochi della tutela autoriale concessa al software, a partire dal 1986 dalla Cassazione (Cass., sez. pen., 24 novembre 1986, n. 1323) e con il D.Lgs. n. 518/1992 dall’ordinamento che lo protegge in quanto opera letteraria.

Successivamente si è parlato prima di programma funzionale avente una caratteristica ludico narrativa ed, in un secondo momento, di opera multimediale complessa quale opera dell'ingegno meritevole di specifica tutela, per poi approdare ad una definizione più articolata, elaborata dalla giurisprudenza comunitaria, che espone quanto segue: "i videogiochi come quelli di cui trattasi nel procedimento principale costituiscono un materiale complesso, che comprende non solo un programma per elaboratore, ma anche elementi grafici e sonori che, sebbene codificati nel linguaggio informatico, possiedono un valore creativo proprio che non può essere ridotto alla suddetta codificazione. Nei limiti in cui concorrono all’originalità dell’opera, le parti che compongono un videogioco, nella fattispecie gli elementi grafici e sonori prima citati, sono protette, insieme all’opera nel suo complesso, dal diritto d’autore" [Corte di Giustizia 23 gennaio 2014 (causa C-355/12)].

Quindi l'opera multimediale complessa arriva in questo modo ad essere un'opera determinata da un contenuto articolato e compresivo di più elementi combinati fra di loro e fruibili dall’utente quali la narrativa, la storia, le immagini, le musiche e le colonne sonore, i marchi etc.

Per ulteriori approfondimenti sugli interventi dei relatori sarà disponibile nelle prossime settimane la videoregistrazione del webinar insieme alle slides redatte dai medesimi relatori sulla piattaforma FORMAZIONE PI, sezione Eventi.