28 maggio 2024
La tutela dei segni distintivi della Croce Rossa Italiana: uso non autorizzato a scopi commerciali dell’emblema e del marchio
La sezione specializzata in materia di impresa del Tribunale ordinario di Bologna si è recentemente pronunciata in tema di tutela dei segni distintivi della Croce Rossa Italiana, con particolare riguardo alla vendita di prodotti contraddistinti dalla famosa Croce Rossa in mancanza di autorizzazione dell'autorità competente.
Nel caso di specie, la Croce Rossa Italiana (CRI) ha contestato alla convenuta di aver prodotto, pubblicizzato, venduto prodotti di abbigliamento e accessori, recanti i segni distintivi della CRI a chiunque ne abbia fatto richiesta, a presindere da precisi ordini di fornitura da parte di CRI e dei suoi comitati locali, senza verificare l'appartenenza del richiedente al circuito della CRI e, quindi, in assenza di autorizzazione all'uso degli emblemi, il cui utilizzo esclusivo spetta alla Croce Rossa.
Con la sentenza n. 1251 pubblicata il 26 aprile 2024, il Tribunale di Bologna ha ricordato che ai sensi dell’art. 1 della legge n. 740 del 1912, l’uso dell’emblema della CRI senza autorizzazione del Governo è vietato e costituisce illecito (ora amministrativo, in precedenza penale:
“Chiunque, senza autorizzazione del Governo, adopera, come emblema, la Croce in campo bianco, o fa uso della denominazione di Croce Rossa" " o "Croce di Ginevra" è punito, salvo che il fatto costituisca reato, con la sanzione amministrativa pecuniaria da lire cinquecentomila a tre milioni.
Alla stessa sanzione soggiace chiunque contraffà o altera l'emblema o la denominazione su ricordate o le adopera in guisa da generare confusione od inganno.
Tali sanzioni sono aumentate di un terzo se l'emblema o la denominazione di cui sopra si usano quale marchio o parte di marchio di fabbrica o di commercio, o come insegna o contrassegno in qualsiasi modo applicato, a scopo di lucro”).
Tuttavia, nel caso di specie, controparte disponeva dell'autorizzazione prefettizia all'uso degli emblemi. Nonostante ciò, il Tribunale ha comunque ritenuto che la condotta non fosse conforme all'autorizzazione e, nella parte in cui non è autorizzata, deve ritenersi illecita.
In particolare, il Tribunale ha ritenuto che la pubblicità è un’attività commerciale connessa con la fabbricazione autorizzata, e come tale deve ritenersi anch’essa autorizzata; induce a tale conclusione il tenore letterale dell’art. 28 t.u.l.p.s.(richiamato nell’autorizzazione prefettizia), che prevede che “Con la licenza di fabbricazione sono consentite le attività commerciali connesse…”. Ha inoltre precisato che la vendita di accessori diversi da quelli espressamente elencati nell’autorizzazione deve ritenersi, invece, non consentita; se invero la vendita di accessori di tal genere fosse lecita, sfuggirebbe ad ogni controllo la produzione di oggetti che, seppur indirettamente, possono suggerire l’identificazione di chi li utilizza con gli appartenenti al Corpo, mentre funzione della disciplina è proprio quella di assicurare che gli oggetti con i segni distintivi della Croce Rossa siano in uso soltanto agli appartenenti alla Croce Rossa.
Il Giudice ha ritenuto che, per la medesima ragione, la vendita a persone fisiche non appartenenti al Corpo non è consentita. Infatti, è vero che l’autorizzazione prefettizia richiede l’identificazione soltanto degli “appartenenti ad un Corpo di Polizia”, tuttavia, il provvedimento non può essere interpretato alla lettera, perché così facendo risulterebbero esclusi dalla necessità di identificazione i Carabinieri ed i militari, che non sono Polizia, mentre è evidente che l’esigenza di identificare l’acquirente di prodotti con i segni distintivi del Corpo è la medesima per Polizia, Carabinieri ed Esercito. Quindi deve concludersi che la necessità di identificazione dell’acquirente valga per gli appartenenti a tutti i Corpi, la produzione dei cui prodotti è soggetta ad autorizzazione, perché per tutti i Corpi esiste l’esigenza di controllare la circolazione dei prodotti contrassegnati. Peraltro, il Tribunale ha ritenuto che la vendita on line e cioè fuori dal negozio deve ritenersi non consentita, perché non permette l’identificazione dell’acquirente.
In riferimento all'asserita lesione del marchio, il Tribunale ha ritenuto che tale lesione non risultava provata. In particolare, secondo CRI il segno della "croce rossa", posto all’interno di due cerchi concentrici di colore rosso, fra i quali è presente la dicitura “Convenzione di Ginevra 22 agosto 1864” è un marchio notorio di titolarità della stessa, per cui la condotta della convenuta integrerebbe la violazione degli articoli 8, 20 e 22 c.p.i..
A giudizio del Collegio l’illecito non risulta provato.
Il segno in questione non è registrato come marchio (in quanto emblema considerato dalle Convenzioni internazionali e comunque di interesse pubblico, non è registrabile senza l’autorizzazione dell’autorità competente, ai sensi dell’art. 10 c.p.i.) e non può nemmeno dirsi che sia usato come marchio di fatto.
L’apposizione del segno sulle uniformi e sugli accessori utilizzati dagli operatori della CRI nella loro attività di servizio vale ad identificare tali operatori come appartenenti al Corpo e non a distinguere gli oggetti prodotti da (o per suo conto) da quelli prodotti da altri.
Quanto all’attività di natura commerciale che l’attrice in comparsa conclusionale sostiene di svolgere, “commercializzando all’interno dei propri associati e volontari i propri prodotti”, “prodotti e merchandising a marchio CRI", viene osservato che di un’attività di tal genere manca non solo la prova, ma anche una precisa e tempestiva allegazione.
Anche la domanda di accertamento della concorrenza sleale non è stata accolta dal Tribunale bolognese.
In particolare, secondo CRI, la convenuta ha creato confusione agli occhi dei consumatori finali e del pubblico in generale, “il quale è portato ad abbinare, inevitabilmente, i prodotti e servizi della convenuta alla qualità ed alla professionalità, nonché alla rinomanza di CRI ovvero a pensare che i prodotti provengano da imprese economicamente collegate”, così violando l’art. 2598 cod. civ..
In merito al mancato accoglimento della domanda di accertamento della concorrenza sleale, il Tribunale ha precisato che la disciplina in materia deve trovare applicazione quando sia il soggetto attivo sia il soggetto passivo dell’atto di concorrenza sono imprenditori e per imprenditore deve intendersi, quanto meno, un soggetto che di fatto svolga un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi.
Proprio in quanto la CRI non è formalmente un imprenditore e non vi è prova che di fatto svolga attività di impresa, il Tribunale ha affermato che difettava nel caso si specie il requisito soggettivo e, pertanto, ha ritenuto inapplicabile la disciplina di cui all’art. 2598 cod. civ..