
proprieta industriale
10 giugno 2025
Fallimento di un'azienda e concorrenza sleale: indispensabile dimostrare il danno effettivo e il nesso di causalità con le azioni contestate
In tema di concorrenza sleale non è sufficiente lamentare la perdita di clienti o dipendenti, ma è essenziale dimostrare in modo inequivocabile che tale perdita sia una conseguenza diretta e causale della condotta illecita del concorrente, e non il risultato di decisioni o difficoltà interne dell'impresa danneggiata.
E' quanto viene evidenziato dal Tribunale di Milano con la sentenza n. 3459 pubblicata il 28 aprile 2025, rigettando in toto le domande presentate da una società dichiarata fallita, che operava nel settore dell’editoria, fornendo servizi e prodotti infografici, contro un'impresa concorrente, accusata di contraffazione di marchio, concorrenza sleale per storno di dipendenti e sviamento di clientela, nonchè in via subordinata per responsabilità aquiliana ex art. 2043 cod. civ..
In tale occasione, in punto di diritto, il Tribunale ha ricordato che, alla luce dei principi espressi dalla Suprema Corte, la concorrenza sleale presuppone, innanzitutto, la c.d. comunanza di clientela da intendersi come l'insieme dei consumatori che sentono il medesimo bisogno di mercato e, pertanto, si rivolgono all'acquisto di tutti quei prodotti che quel bisogno sono idonei a soddisfare (cfr. Cass. n. 10336/2016), e che l'art. 2598, n. 3, cod. civ. costituisce una disposizione aperta che spetta al giudice riempire di contenuti, avuto riguardo alla naturale atipicità del mercato e alla rottura della regola della correttezza commerciale, sì che in tale previsione rientrano tutte quelle condotte che, coerentemente con la suddetta ratio, ancorché non tipizzate, abbiano come effetto l'appropriazione illecita del risultato di mercato della impresa concorrente (cfr. Cass. n. 18034/2022).
Ai fini dell’onere della prova, deve essere, inoltre, rilevato che la presunzione di colpa dettata dall'art. 2600 cod. civ. non vuol dire che, una volta accertata la concorrenza sleale, si possa presumere che da essa sia derivato un danno, essendo necessario che la sua ontologica esistenza sia provata al pari del nesso di causalità (cfr. Cass. n. 16283/2009).
In particolare, si ritiene, al riguardo, secondo l'orientamento giurisprudenziale formulato dalla Suprema Corte, che il danno cagionato dagli atti di concorrenza sleale non è in re ipsa ma, quale conseguenza diversa e ulteriore rispetto alla distorsione delle regole della concorrenza, necessita di prova secondo i principi generali che regolano il risarcimento da fatto illecito, sicché solo la dimostrazione della sua esistenza consente l'utilizzo del criterio equitativo per la relativa liquidazione (cfr. Cass. n. 3811/2020).
La Suprema Corte di Cassazione ha, altresì, precisato che se è vero che l'accertamento di concreti fatti materiali di concorrenza sleale comporta una presunzione di colpa, che onera l'autore degli stessi della dimostrazione dell'assenza dell'elemento soggettivo ai fini dell'esclusione della sua responsabilità, è altrettanto vero che il corrispondente danno cagionato dalla condotta anticoncorrenziale necessita di essere provato dal danneggiato (cfr. Cass. n. 4255/2021).