26 marzo 2020
Lo stato di salute della proprietà intellettuale ai tempi del Coronavirus
di Emidia Di Sabatino
L’attuale pandemia da Coronavirus ha repentinamente stravolto la nostra vita privata e professionale e gli effetti devastanti del suo dilagare hanno dato il via ad una fase caotica di procedimenti normativi a cascata legati alla lotta all’emergenza che hanno condotto sino al blocco del sistema produttivo italiano, per motivi di sicurezza pubblica, nel rispetto del bene superiore che è la vita.
L’emergenza da COVID-19 è divenuta anche il banco di prova per verificare come e quanto il diritto saprà ridurre lo scarto del fisiologico ritardo con cui generalmente vive l’adattamento alla realtà delle cose, reagendo ad una crisi che impone, in una maniera o nell’altra, la compressione di alcuni diritti per salvaguardarne altri.[1]
Nel dibattito in atto sulla tenuta di istituti, principi di diritto e libertà fondamentali, anche la proprietà intellettuale è costretta a fare i conti con lo stato di emergenza.
Paradossalmente, l’Italia che per prima in Europa ha riconosciuto l’entità del fenomeno, dimostrando, più degli altri paesi, un forte senso civico e di responsabilità, nel settore agroalimentare (che costituisce da sempre una nostra eccellenza) sta pagando il prezzo del patentino di paese untore che le è stato ingiustamente affibbiato.
È rimbalzata infatti alla cronaca la diffusione della falsa notizia che il Coronavirus sia trasmissibile attraverso gli alimenti, nonostante le smentite da parte dei nostri virologi, con un conseguente duro colpo inferto al settore agroalimentare.
Come è noto, l’accezione Made in Italy ha veicolato nel mondo un messaggio di eccellenza e qualità, contribuendo a creare l’immagine della nostra Nazione e generando una vis attrattiva verso i prodotti che possono fregiarsi di detta dicitura, sulla base della qualità percepita della merce, sino ad orientare le scelte di acquisto del consumatore[2].
L’immagine di una Nazione si nutre e dipende da come i suoi abitanti vengono percepiti, dalla cultura, dalla qualità del cibo, dal suo sviluppo economico e anche da situazioni contingenti di emergenza, come quella che stiamo vivendo, che su quei fattori necessariamente finiscono per incidere.
La lista di episodi che stanno danneggiando l’immagine dell’Italia è già lunga.
Non possiamo non ricordare, primo fra tutti, lo spot francese “Corona Pizza” trasmesso in Francia dal Canal+ che riprendeva un cameriere che starnutendo infettava una pizza, spot giudicato offensivo e ritirato con tanto di scuse.
Né sono mancate ingiustificate speculazioni finalizzate a mettere a rischio la libera circolazione dei nostri prodotti, anche all'interno dell'Unione Europea, screditandone la qualità, al fine di danneggiare un settore strategico del Made in Italy come l'agroalimentare, facendo perdere rilevanti quote di mercato alle produzioni nazionali.
Dai blocchi alla frontiera opposti ai prodotti agroalimentari italiani, alle richieste di certificazioni sanitarie “virus free” da parte di buyers stranieri su vini e cibi italiani (come nel caso degli importatori di formaggio Grana Padano in Grecia), non supportate peraltro da alcuna base scientifica, di questi tempi, non possiamo che constatare che il Made in Italy agroalimentare è vittima di veri e propri comportamenti discriminatori.
La prima conferma è arrivata dall’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA) che ha ricordato che la trasmissione del virus avviene per via aerea da uomo a uomo, ritenendo pertanto ingiustificate le garanzie supplementari richieste per i nostri prodotti.
Per dirimere la questione, le imprese del settore agroalimentare si sono mosse compatte per sollecitare l’intervento diretto del Governo e della Commissione europea, auspicando l’avvio di un piano di comunicazione straordinaria per consolidare l'immagine positiva del nostro Paese e dei nostri prodotti all'estero.
Pertanto, con Decreto Legge 2 marzo 2020, n. 9 “Misure urgenti di sostegno per famiglie, lavoratori e imprese connesse all'emergenza epidemiologica da COVID-19”[3] il Governo ha stabilito che costituisce pratica commerciale sleale vietata, nelle relazioni tra acquirenti e fornitori, ai sensi della Direttiva (UE) 2019/633[4], la subordinazione dell’acquisto di prodotti agroalimentari all’adozione di certificazioni virus free non obbligatorie, né indicate in accordi di fornitura antecedenti, prevedendo l’applicazione di una sanzione amministrativa, in capo al contraente, non consumatore finale, che contravviene al divieto. L'Ispettorato centrale della tutela della qualità e della repressione delle frodi dei prodotti agroalimentari del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali è incaricato della vigilanza e dell'irrogazione delle relative sanzioni.
Poco dopo la Commissione europea si è pronunciata al riguardo, sancendo il divieto in capo agli Stati membri di imporre certificazioni addizionali sulle merci che circolano all’interno del mercato unico dell'Unione Europea e pubblicando le linee guida sulle misure da adottare alle frontiere per l’emergenza da Coronavirus[5].
La pratica dell’Italian Sounding che consiste, come è noto, nell’attribuire ai prodotti (generalmente agroalimentari) un marchio il cui suono evoca l’origine italiana, in modo che il pubblico associ erroneamente all’originale, il prodotto contraddistinto dal marchio evocativo di quello italiano, arreca certamente danni economici alle imprese italiane titolari dei marchi per i mancati guadagni che tale prassi determina, un danno all’immagine legato alla qualità di gran lunga inferiore dei prodotti che evocano l’italianità rispetto alla qualità del prodotto originale italiano, oltreché una diluzione del valore distintivo del marchio originale.
In analogia con la pratica sopra descritta, le richieste (speculative) di certificazioni “virus free” sui prodotti agroalimentari italiani, recentemente avanzate da alcuni paesi stranieri e comunque cadute nel vuoto come sopra detto, sono state anch’esse sorrette dall’intento malevolo di veicolare presso il pubblico un messaggio ingannevole circa la qualità dei nostri prodotti, ma a differenza dell’Italian sounding, hanno collegato l’italianità ad un disvalore percepito in termini di insalubrità e insicurezza del prodotto, allo scopo di danneggiare l’export e contagiare l’immagine di qualità e di eccellenza che ha, da sempre, contraddistinto i prodotti agroalimentari italiani.
Sempre in un’ottica speculativa, non è mancato chi ha perfino fatto dello stato di pandemia un’occasione di business, tanto che il 12 marzo scorso è stata depositata la domanda di marchio dell’Unione Europea Coronavirus n. 018209884, per prodotti cosmetici in classe 3, prodotti agricoli in classe 31 e bevande alcoliche e analcoliche nelle classi 32 e 33.
Non è peregrino ritenere che l’EUIPO, ai sensi dell’articolo 7, paragrafo 1, lettera f), del Regolamento UE 2017/1001, possa rifiutare la registrazione del segno denominativo Coronavirus per contrarietà al buon costume[6]. La ratio della disposizione citata è quella di impedire che i soggetti espandano i propri obiettivi imprenditoriali tramite la registrazione di marchi contrastanti con i valori e le esigenze etiche della società civile, in un determinato ambiente e in un certo momento storico.
Il marchio Coronavirus finirebbe per attribuire al suo titolare un vantaggio competitivo sul mercato, mediante l’acquisizione di un surplus di attenzione, da parte del pubblico di riferimento, derivante proprio dall’impiego di un messaggio «scioccante» (evocativo di paura e di morte) che il pubblico potrebbe immediatamente associare al segno, fino a percepirlo come moralmente inaccettabile nel contesto storico e sociale di emergenza che stiamo vivendo.
Dando uno sguardo rapido all’impatto della pandemia sul versante Uffici ricordiamo che, in conseguenza dell’acuirsi nel territorio italiano dell’emergenza epidemiologica da Coronavirus e dell’adozione da parte del Governo di misure restrittive di contenimento, l’UIBM ha disposto la sospensione dei termini in scadenza dei procedimenti pendenti, con Decreto direttoriale 11 marzo 2020, ad eccezione dei termini perentori del procedimento di opposizione alla registrazione di marchi e dei ricorsi notificati, fino al 3 aprile 2020. A seguito del Decreto Legge n. 18 del 17 marzo 2020, (c.d. "Cura Italia") ha poi esteso, sotto il profilo temporale, la sospensione fino al 15 aprile 2020 e ricompreso il procedimento di opposizione di cui all’art. 176 C.P.I., la cui sospensione può essere prevista solo da disposizioni di natura legislativa. L’UIBM ha, inoltre, comunicato che si sta adoperando per riorganizzare al meglio i propri servizi, al fine di contemperare le esigenze dei cittadini e dell’utenza con le disposizioni della Presidenza del Consiglio dei Ministri in materia di contrasto e contenimento del COVID-19.
L’EUIPO, per parte sua, si è coordinato con lo stato di allarme attivato dal governo spagnolo il 14 marzo scorso e con le misure di contenimento del contagio, annunciate dal Regio Decreto n. 463/2020, attivando un protocollo di continuità operativa dell'Ufficio. E’ stata, inoltre, pubblicata una Decisione del suo direttore esecutivo del 16 marzo scorso che ha esteso la sospensione di tutti i termini fino al 1° maggio prossimo.
Pare interessante segnalare, infine, il caso recentissimo di un imprenditore bresciano che su richiesta dell’ospedale di Chiari ha utilizzato la tecnologia della stampa 3D per la realizzazione, in tempi da record, di valvole (coperte da brevetto di terzi) destinate ai respiratori dei pazienti in terapia sub-intensiva, dopo l’esaurimento delle scorte e l’impossibilità della ditta fornitrice di soddisfare alla richiesta. La notizia riporta all’attualità le considerazioni che, a suo tempo, la dottrina[7] aveva espresso sui vantaggi e i rischi per i diritti di proprietà intellettuale connessi all’utilizzo della stampa 3D.
Di questo metodo di produzione per la realizzazione di oggetti, con diverse caratteristiche fisiche e meccaniche, mediante una produzione additiva di strati sovrapposti di materiali plastici o polveri o attraverso l’utilizzo di materiali liquidi induriti successivamente, il tutto gestito da un software di modellazione, erano stati prefigurati i vantaggi, in termini soprattutto di efficienza, riduzione dei tempi e dei costi di progettazione e prototipazione, di abbattimento delle catene produttive e riduzione dei costi di manodopera, ma anche rilevate le criticità, sotto il profilo dei rischi per le imprese derivanti dalla polverizzazione della contraffazione e dalla difficoltà di monitoraggio delle imitazioni.
Il caso prospettato (di cui invero non conosciamo i dettagli) che parrebbe configurare, di per sé, una ipotesi di contraffazione di brevetto mediante riproduzione del prodotto con stampa 3D rappresenta anche una applicazione concreta del principio di bilanciamento di contrapposti interessi, reso necessario dallo stato attuale di emergenza, per cui i diritti di esclusiva del titolare del brevetto sono stati sacrificati a tutela del diritto fondamentale e costituzionalmente garantito della salute dei cittadini.
Proiettandoci con fiducia al periodo del post-pandemia, è da auspicarsi che possa essere proprio la proprietà intellettuale (che in stato di emergenza da Coronavirus potrebbe anche subire delle compressioni) uno degli strumenti di “cura” più efficaci delle nostre piccole e medie imprese che in passato hanno fatto delle idee la loro punta di diamante e che a nuove idee (da proteggere) dovranno attingere per poter ripartire.
[1] Cfr. Pizzetti F., A rischio le libertà dei cittadini, urgente un intervento giuridico, in Agenda Digitale, 23 marzo 2020 che mette in guardia dalle recenti deroghe alla privacy introdotte dal Governo nella lotta all’emergenza da Coronavirus, con una compressione delle libertà fondamentali dei cittadini.
[2] In argomento, si rinvia a Galli C., Mainini D., Zani D., Competere con il brand sul mercato globale, 2017, che affronta l’argomento a pag. 149 e segg.
[3] Decreto Legge 2 marzo 2020, n. 9 “Misure urgenti di sostegno per famiglie, lavoratori e imprese connesse all'emergenza epidemiologica da COVID-19” in G.U serie generale n. 53 del 2 marzo 2020, art. 33 comma 4 e 5 (misure per il settore agricolo): “4. Costituisce pratica commerciale sleale vietata nelle relazioni tra acquirenti e fornitori ai sensi della direttiva (UE) 2019/633 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 17 aprile 2019, la subordinazione di acquisto di prodotti agroalimentari a certificazioni non obbligatorie riferite al COVID-19 né indicate in accordi di fornitura per la consegna dei prodotti su base regolare antecedenti agli accordi stessi. 5. Salvo che il fatto non costituisca reato, il contraente, a eccezione del consumatore finale, che contravviene a questi obblighi è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 15.000 a euro 60.000. La misura della sanzione è determinata facendo riferimento al beneficio ricevuto dal soggetto che non ha rispettato i divieti. L'Ispettorato centrale della tutela della qualità e della repressione delle frodi dei prodotti agroalimentari del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali è incaricato della vigilanza e dell'irrogazione delle relative sanzioni, ai sensi della legge 24 novembre 1981, n. 689. All'accertamento delle medesime violazioni l'Ispettorato provvede d'ufficio o su segnalazione di qualunque soggetto interessato”.
[4] Cfr. Direttiva (UE) 2019/633 del Parlamento europeo e del Consiglio del 17 aprile 2019, in materia di pratiche commerciali sleali nei rapporti tra imprese nella filiera agricola e alimentare che introduce un livello minimo di tutela comune nell'Unione europea e prevede, fra l’altro, una lista di pratiche vietate a priori, tra cui la modifica unilaterale da parte dell'acquirente delle condizioni di un accordo di fornitura di prodotti agricoli e alimentari, relative alla frequenza, al metodo, al luogo, ai tempi o al volume della fornitura o della consegna dei prodotti agricoli e alimentari, alle norme di qualità, ai termini di pagamento o ai prezzi o relative alla prestazione di servizi.
[5] Cfr. Le Linee guida della Commissione europea per la circolazione delle merci (Guidelines for border management measures to protect health and ensure the availability of goods and essential services) sono state pubblicate il 16 marzo 2020 e definiscono i principi per un approccio integrato teso ad una gestione efficace delle frontiere, a protezione della salute e dell’integrità del mercato interno.
[6] Sulla nozione di buon costume si rinvia alla recente pronuncia della Corte di Giustizia del 27 febbraio 2020 (causa C‑240/18 P) in SPRINT sistema di proprietà intellettuale, con nota di commento di Sandri S., L’appassionante dilemma del “vaffa” secondo cui: “… tale concetto si riferisce, nel suo senso abituale, ai valori e alle norme morali fondamentali a cui una società aderisce in un dato momento. Tali valori e tali norme, che possono evolvere nel tempo e variare nello spazio, devono essere determinati in funzione del consenso sociale prevalente in quella società al momento della valutazione. Ai fini di tale determinazione occorre tenere in debito conto il contesto sociale, ivi incluse, se del caso, le diversità culturali, religiose o filosofiche che lo caratterizzano, al fine di valutare in modo oggettivo ciò che la società stessa considera, in quel momento, moralmente accettabile…”. Cfr. anche Cass. civ. sez. III, 21.04.2010 n. 9941: «La nozione di buon costume non si identifica soltanto con le prestazioni contrarie alle regole della morale sessuale o della decenza ma comprende anche quelle contrastanti con i principi e le esigenze etiche costituenti la morale sociale in un determinato ambiente e in un certo momento storico».
[7] Cfr. AA.VV., Stampa 3D una rivoluzione che cambierà il mondo, Filodiritto, 2014.
Avv. Emidia Di Sabatino - Docente del Master Giuristi d’Impresa e del Master Export Management: Commercio Internazionale e Nuovi Mercati