27 luglio 2020
La Corte di Cassazione chiarisce la portata della nuova norma sulla tutela penale dei segreti commerciali
di Federico Riboldi
Proprio in questi giorni è stata depositata la motivazione della sentenza n. 16975, dell’11 febbraio 2020, con cui la 5a sezione penale della Corte di Cassazione ha reso definitiva la condanna in una fattispecie in cui gli imputati avevano sottratto i segreti industriali di una nota multinazionale operante nel settore delle chiavi dinamometriche, con la quale avevano in precedenza collaborato, utilizzandoli per realizzare prodotti concorrenziali destinati al medesimo mercato di riferimento.
La motivazione è estremamente articolata e, oltre a riconoscere come infondate alcune eccezioni di ordine processuale proposte dai ricorrenti (circa la tardività della querela, la legittimazione a richiedere i danni, la congruità della provvisionale liquidata in 1° grado), stabilisce importanti principi di diritto, delineando con chiarezza e rigore sistematico l’ambito di tutela offerto dall’art. 623 cod. pen., anche alla luce delle recenti modifiche normative introdotte dal D.Lgs. 11 maggio 2018, n. 63, con cui si è data attuazione alla Direttiva (UE) n. 2016/943.
Di seguito i passaggi salienti della decisione.
La tempestività della querela, l’onere della prova e i criteri di accertamento circa la presunta tardività della stessa
La Suprema Corte ha preliminarmente affrontato, rigettandola, l’eccezione riguardante la presunta tardività della querela, già proposta e respinta nel giudizio di appello, fondata su una serie di elementi che - a detta dei ricorrenti - avrebbero certificato come il titolare dei segreti sottratti fosse a conoscenza dei fatti in una data di oltre tre mesi precedente a quella di deposito dell’atto.
La parte civile aveva replicato richiamando le prove assunte nel processo che, a detta della medesima, mostravano come la società si fosse determinata a querelare solo dopo aver acquisito tutte le informazioni e aver operato tutte le verifiche in ordine alla sottrazione del proprio know how e all’individuazione dei responsabili.
La Corte ha accolto detta impostazione, richiamando i propri consolidati principi di diritto secondo cui "ai fini della individuazione del dies a quo per la proposizione della querela, occorre che la persona offesa abbia avuto conoscenza precisa, certa e diretta, sulla base di elementi seri, del fatto-reato nella sua dimensione oggettiva e soggettiva, in modo da essere in possesso di tutti gli elementi di valutazione necessari per determinarsi", ribadendo altresì che "con riguardo, specificamente, ai reati commessi in danno di una società per azioni, si è, altresì, precisato, con orientamento univoco, che il termine di proposizione della querela si individua nel momento in cui il consigliere delegato o l'amministratore unico, titolari del potere di querela, abbiano conoscenza del fatto e del suo autore e possano, quindi, liberamente determinarsi e non rileva, invece, il diverso e antecedente momento nel quale l'informazione del fatto sia pervenuta a ramificazioni periferiche della società" (ciò in coerenza con sue precedenti pronunce – cfr. Cass. Sez. 5, n. 21889 del 19/04/2010; Cass. Sez. 2, n. 48026 del 04/11/2014; Cass. Sez. 2, n. 10978 del 12/12/2017)
Le altre eccezioni concernenti le richieste risarcitorie
Alle pagine da 13 a 15 della sentenza, la Cassazione affronta, rigettando le eccezioni proposte dagli imputati, una serie di questioni attinenti alla legittimazione della parte civile, alla sussistenza di un danno risarcibile, nonché alla congruità della provvisionale che gli imputati erano stati condannati a corrispondere dopo la sentenza di primo grado.
Con riguardo all’esistenza di una revoca tacita della costituzione di parte civile, che secondo i ricorrenti sarebbe derivata dalla proposizione di un giudizio civile da parte della società danneggiata, la Corte ha rilevato la diversità di oggetto tra l'azione proposta in sede penale e quella successivamente avviata in sede civile (diversità già riconosciuta in sede di appello) ritenendo così infondata l’eccezione.
La sentenza, inoltre, respinge la tesi dei ricorrenti che sostenevano l'assenza di un danno per il titolare del diritto in connessione con le condotte di sottrazione del know how. Nella sentenza, infatti, si fa rinvio alle convergenti pronunce emesse nei due precedenti gradi di giudizio ove, sulla base delle prove fornite, e richiamando categorie tipiche del diritto industriale, era stato dimostrato lo storno della clientela, la concorrenza parassitaria attraverso la commercializzazione di prodotti concorrenziali a prezzi inferiori rispetto a quelli di mercato, l'incidenza negativa di ciò sul fatturato del titolare del diritto, nonché il discredito dovuto alla commercializzazione di un prodotto alternativo realizzato da coloro i quali, fino a pochi mesi prima, avevano collaborato con Atlas.
Da ultimo, sempre con riguardo al tema delle statuizioni civili, la Suprema Corte ha respinto l'eccezione relativa alla pretesa eccessività dell'importo liquidato a titolo di provvisionale. I Giudici hanno ritenuto infondata nel merito la questione, poiché la quantificazione avviene in via necessariamente equitativa, e comunque non deducibile davanti al giudice di legittimità, trattandosi di una decisione di natura discrezionale, meramente delibativa e non necessariamente motivata (la Corte richiama, sul punto, una sua precedente pronuncia – cfr. Cass., sez. 5, n. 32899 del 2011).
La sussistenza del reato di cui all'art. 623 cod. pen.
La parte più rilevante della sentenza riguarda l'accertamento di colpevolezza degli imputati, definitivamente riconosciuti responsabili del reato di cui all'art. 623 cod. pen..
Nelle oltre 5 pagine di motivazione dedicate a detto tema, la Suprema Corte ha anzitutto ribadito alcuni principi di diritto già affermati in sue precedenti sentenze, respingendo le ricostruzioni in fatto e in diritto che gli imputati avevano proposto nei motivi di ricorso
La sentenza, in primo luogo, rigetta l'eccezione incentrata sulla mancata identificazione del know how sottratto, chiarendo che:
a) ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 623 cod. pen. non è necessario che ricorrano i presupposti della brevettabilità della scoperta o dell'applicazione rivelata, poiché la norma tutela il segreto industriale, da intendersi come "quell'insieme di conoscenze riservate e di particolari modus operandi in grado di garantire la riduzione al minimo degli errori di progettazione e realizzazione e dunque la compressione dei tempi di produzione";
b) nelle sentenze di merito i segreti industriali sottratti erano stati individuati e consistevano nel patrimonio di conoscenze acquisite ed elaborate dalla società in 3 anni di lavoro "con l'impiego di risorse finanziarie rilevanti, un lavoro di equipe, il coinvolgimento di diverse competenze tecniche, la ricerca quotidiana, i numerosi test per renderla fruibile ai clienti finali, ovvero le più importanti case automobilistiche mondiali, e adattarle alle esigenze segnalate" che davano luogo ad una "combinazione del tutto originale confluita nella chiave dinamometrica realizzata dalla società";
c) la peculiarità del know how in oggetto era confermata dalla scelta di una multinazionale con stabilimenti in 160 Paesi (il gruppo Atlas Copco), di acquistare la società italiana proprio in ragione di detto know how;
d) un determinato file presente nel software della chiave originale, rinvenuto anche nella "copia" realizzata dagli imputati, pur contenendo elementi di per sé generici e comuni, rappresentava il frutto di un'elaborazione autonoma da parte della società, durata anni, per tarare al meglio l'efficienza finale del prodotto;
e) proprio questa combinazione aveva consentito agli imputati di realizzare, in tempi brevissimi, un prodotto sofisticato e altamente concorrenziale - che aveva richiesto anni di studi, investimenti importanti ed anni di sperimentazione - e di entrare così nel mercato in modo competitivo. Ciò beneficiando non solo di un risparmio di costi, ma anche di un evidente vantaggio temporale connesso ai tempi di ricerca e sperimentazione che gli imputati non avevano dovuto sopportare; risparmio di tempo che la Corte ha ritenuto tanto più rilevante "in un sistema capitalistico sempre più connotato da velocità ed obsolescenza dei prodotti industriali".
Come si vede, dunque, la Corte, muovendo dalla nozione di segreto più sopra richiamata, giunge, anche attraverso una serie di elementi sintomatici, alla conclusione dell’indebito utilizzo delle conoscenze riservate apprese in costanza del rapporto di lavoro.
La Suprema Corte, nel proprio sforzo sistematico, particolarmente opportuno vista l’esiguità delle pronunce riguardanti l’art. 623 cod. pen., si è anche diffusa, in termini più generali, sulla nozione di know how e, dopo aver ribadito – in coerenza con precedenti pronunce (in particolare la sentenza n. 25008 del 2001, resa sempre dalla 5a sezione penale della Cassazione) - che esso consiste in quel "patrimonio cognitivo e organizzativo necessario per la costruzione, l'esercizio, la manutenzione di un apparato industriale", ha anche aggiunto che si tratta di "un patrimonio di conoscenze il cui valore economico è parametrato all'ammontare degli investimenti (spesso cospicui) richiesti per la sua acquisizione e al vantaggio concorrenziale che da esso deriva, in termini di minori costi futuri o maggiore appetibilità dei prodotti", tanto che "l'informazione tutelata dalla norma in questione (l'art. 623 cod. pen.: n.d.r.) è, dunque, un'informazione dotata di un valore strategico per l'impresa, dalla cui tutela può dipendere la sopravvivenza stessa dell'impresa".
Di grande importanza, poi, è il passaggio in cui la Corte declina in concreto la tutela del segreto in rapporto alla "non notorietà" delle informazioni. Si legge nella motivazione "anche se la sequenza delle informazioni che, nel loro insieme, costituiscono un tutt'uno per la concretizzazione di una fase economica specifica dell'attività dell'azienda, è costituita da singole informazioni di per sé note, ove detta sequenza sia invece non conosciuta e sia considerata segreta in modo fattivo dall'azienda, essa è di per sé degna di protezione e tutela. Non è necessario, cioè, che ogni singolo atto cognitivo che compone la sequenza sia non conosciuto; è necessario, invece, che il loro insieme organico sia frutto di un'elaborazione dell'azienda".
Altrettanto significativa è la parte di motivazione in cui la Suprema Corte riconosce come non vi sia una totale assimilazione tra il segreto industriale di cui all'art. 623 cod. pen. e quello di cui all'art. 98 CPI, che invece era stata invocata dai ricorrenti. Detta ultima disposizione, si legge nella motivazione, non svolge funzione di norma integrativa del precetto penale, poiché ciò implicherebbe che al concetto di segreto industriale definito all’interno di quella disposizione possa essere attribuito valore generale.
La Corte, ancora una volta con visione sistematica della materia, sottolinea che, invece, è proprio il CPI, facendo salva all’art. 99 la disciplina della concorrenza sleale, a riconoscere "l’esistenza di segreti industriali che, pur non rispondendo ai criteri indicati dall’art. 98 CPI, sono meritevoli di tutela".
I Giudici di legittimità, del resto, non mancano di osservare come il Legislatore della riforma introdotta nel 2018, pur avendo stabilito che "le notizie destinate a rimanere segrete sopra applicazioni industriali di cui alla formulazione previgente del medesimo articolo 623, costituiscono segreti commerciali", abbia scelto di non operare, nella ridefinizione del segreto penalmente tutelato, alcun rinvio all’art. 98 CPI.
In sostanza, la Corte ha ritenuto che l'eventuale assenza degli elementi (o anche solo di uno di essi) previsti dall'art. 98 CPI non esclude che l'informazione sottratta sia protetta penalmente, laddove - come nel caso deciso dalla sentenza in esame - vi sia un interesse giuridicamente apprezzabile al mantenimento del segreto.
Proprio con riguardo a tale interesse, la Corte ha sottolineato, nella parte conclusiva della motivazione, che esso era stato adeguatamente individuato dai giudici di merito (l'acquisto della società da parte del gruppo multinazionale ne sarebbe stata la manifestazione più evidente) e che le esigenze di segretezza erano perfettamente note agli imputati, i quali avevano potuto adeguatamente apprezzare la riservatezza delle informazioni costituenti il know how alla luce delle posizioni apicali a loro rivestite all'interno della società, e della condotta complessivamente da loro tenuta.
Da ultimo vale la pena di richiamare anche la motivazione con cui la Corte rigetta l’eccezione, non certo infrequente in procedimenti che abbiano ad oggetto (in sede penale come in sede civile) l’utilizzo di segreti, riguardante la presunta paternità dell’informazione sottratta in capo all’ex collaboratore (ed imputato). Si legge nella sentenza, infatti, che l’oggetto specifico della violazione non era rappresentato dal software (che il ricorrente sosteneva di avere scritto), ma bensì dal "complesso delle informazioni ulteriori e successivamente acquisite dalla società …, che ha portato alla elaborazione di un know how originale e altamente sofisticato", acquisito nel corso del rapporto di lavoro.
In definitiva, dunque, riteniamo che la pronuncia in oggetto, per la sua chiarezza e approfondita analisi della materia, rappresenterà un riferimento paradigmatico decisivo in procedimenti che abbiano ad oggetto addebiti di sottrazione di segreti industriali (oggi segreti commerciali).
Avv. Federico Riboldi
Studio Legale Brenelli