
angolo del professionista
Scontro tra “Boss”: l’incredibile battaglia del marchio tra un piccolo imprenditore italiano e il colosso Hugo Boss
di Silvia Mirenda
Il 29 aprile 2016 la ditta BIG FOOD CATERING INDUSTRIES DI PARIDE COCOZZA (“BIG FOOD”) ha dato inizio, sua insaputa e suo malgrado, ad una disputa legale lunga quasi 10 anni. Unica colpa: aver presentato davanti l’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi la domanda di registrazione n. 302016000044077 per il marchio IL BOSS DEI PANINI, con l’obiettivo di chiederne la protezione per i servizi di ristorazione della classe 43.
La ragione della scelta di questo appellativo è lampante: comunicare immediatamente, ed in modo ironico, il fatto di essere “bravi”, “i migliori”, in qualcosa. Si tratta, peraltro, di una scelta in linea con un trend che ormai spopola tra trasmissioni tv e attività dove va di moda l’utilizzo della parola BOSS (si pensi al BOSS DELLE CERIMONIE, al BOSS DELLE TORTE).
Vi è però qualcuno che non la pensa così, e che ritiene che in realtà la parola BOSS non sia un termine liberamente utilizzabile da chiunque, ma al contrario che sia una parola in grado di collegare i servizi in questione ad una e unica realtà imprenditoriale: HUGO BOSS TRADE MARK MANAGEMENT GMBH & CO (HUGO BOSS), la nota società di moda tedesca.
Il 31 maggio 2017 HUGO BOSS presenta formale opposizione contro il marchio IL BOSS DEI PANINI davanti all’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi (UIBM), chiedendo il rigetto della domanda ex art. 12 comma 1 lett. d) CPI, a causa di un rischio di confusione tra i due marchi data la somiglianza tra i segni e l’identità dei servizi. Nonostante l’Opponente operi nel settore della moda, infatti, anni prima aveva depositato un marchio in Unione europea rivendicando proprio i servizi in classe 43 qui contestati.
HUGO BOSS riesce tra diverse peripezie ad aggiudicarsi una prima decisione favorevole. Il 21 ottobre 2020 l’UIBM accoglie l’opposizione e rigetta la domanda di marchio IL BOSS DEI PANINI, ritenendo che quest’ultimo possa essere confondibile agli occhi del pubblico con il marchio BOSS. Sulla carta i marchi rivendicano gli stessi servizi, e il marchio anteriore non è ancora soggetto alla prova dell’uso richiesta a partire dai cinque anni dopo la registrazione.
Molte però le perplessità che restano leggendo la decisione, nella quale se da un lato si ritiene che il marchio BOSS non goda di un carattere distintivo accresciuto in virtù dell’uso intenso sul mercato rivendicato dal titolare, dall’altro si legge che per pervenire a una conclusione di somiglianza, occorre tener conto del grado di distintività dell'elemento comune (BOSS); più questo è distintivo, più è elevato il grado di somiglianza per ciascun aspetto della comparazione (visiva, fonetica e concettuale).
Sul concetto del carattere distintivo accresciuto dobbiamo soffermarci, perché tornerà anche in seguito: ciò che l’Ufficio sostiene, nonostante la conclusione non ne tenga sufficientemente conto, è che la documentazione prodotta da Hugo Boss non può dimostrare l’accresciuta distintività del segno BOSS con riferimento ai servizi della classe 43. Il motivo? Semplice: HUGO BOSS è una nota azienda d’abbigliamento, non di ristorazione. Le prove fornite durante il procedimento, quindi, fanno riferimento ad una mera attività occasionale collegata ad altri eventi sponsorizzati e non di fornitura di cibi e bevande. Per assurdo, se l’Opponente avesse basato la propria opposizione sui propri marchi BOSS registrati per prodotti d’abbigliamento, allora la rivendicazione del carattere distintivo accresciuto, e della maggior tutela che ne deriva, avrebbe avuto ragion d’essere.
Ma la BIG FOOD non si arrende: il 17 dicembre 2020 presenta ricorso avverso la decisione dell’UIBM, insistendo - tra l’altro - sul fatto che i due marchi sarebbero stati erroneamente valutati, in quanto quello anteriore (BOSS) sarebbe un marchio debole, e che quindi le differenze presenti (“IL BOSS DEI PANINI”) siano da considerarsi sufficienti per escludere il rischio di confusione.
Il 18 ottobre 2021 la BIG FOOD ottiene una prima vittoria. La Commissione dei Ricorsi dà ragione alla Ricorrente riconoscendo che il termine “BOSS” sia effettivamente una parola ampiamente utilizzata, e che quindi la tutela derivante dalla registrazione del marchio BOSS sia da considerarsi limitata. A questo proposito la Commissione dei Ricorsi cita il principio di diritto in precedenza espresso dalla Suprema Corte di Cassazione (Sez. 1, Sentenza n. 8942 del 2020; Sez. 1, Ordinanza n. 15927 del 2018; Sez. 1, Sentenza n. 13170 del 2016) secondo cui la qualificazione del segno distintivo come marchio debole non incide sull'attitudine dello stesso alla registrazione, ma soltanto sull'Intensità della tutela che ne deriva, nel senso che, a differenza del marchio forte, in relazione al quale vanno considerate illegittime tutte le modificazioni, pur rilevanti ed originali, che ne lascino comunque sussistere l'identità sostanziale ovvero il nucleo ideologico espressivo costituente l'idea fondamentale in cui si riassume, caratterizzandola, la sua attitudine individualizzante, per il marchio debole sono sufficienti ad escluderne la confondibilità anche lievi modificazioni od aggiunte.
La rivincita di BIG FOOD dura poco. HUGO BOSS presenta ricorso in Cassazione lamentando il fatto che la Commissione dei Ricorsi ha errato nel ritenere che il segno BOSS sia un marchio debole, dal momento che non può essere considerato - intrinsecamente parlando - né descrittivo né allusivo nel settore della ristorazione. Oltre a ciò, HUGO BOSS lamenta altri errori di legittimità commessi dalla Commissione con la propria decisione: il fatto che non sia stata adeguatamente considerata la notorietà del marchio “BOSS”, né la natura “patronimica” del marchio, nonché il fatto di aver utilizzato impropriamente il concetto di “fatto notorio”, fondando parte della decisione su circostanze non provate né dedotte dalle parti, ma autonomamente ricercate e assunte acriticamente (ad es. la percezione comune del termine “Boss” nel linguaggio quotidiano).
In effetti, gli Ermellini accolgono tutte le doglianze della Ricorrente, e con l’ordinanza RG n. 7762/2022 cassano la sentenza impugnata e rinviano la causa alla Commissione dei Ricorsi.
Tra i punti focali dell’ordinanza della Suprema Corte, segnaliamo come i Giudici abbiano rimproverato il fatto che, nella prospettiva del binomio «marchio forte - marchio debole» assunta in decisione, la Commissione non abbia preso in considerazione la natura patronimica del marchio «Boss». Questo perché il fatto che il marchio patronimico è per definizione considerato un marchio forte (Cass. 29 dicembre 2011, n. 29879; Cass. 14 aprile 2000, n. 4839) avrebbe potuto avere un peso nella decisione finale. “Avrebbe”, perché in realtà nella stessa ordinanza viene chiarito come l’accertamento della natura patronimica del marchio BOSS potrebbe comunque non essere sufficiente ad impedire la registrazione del segno della controricorrente.
Ed infatti, ad ulteriore chiarimento, nella stessa ordinanza si legge che il marchio «forte» è tutelato contro i segni che lascino immutato il suo nucleo espressivo: e questo sta a significare che la ripresa della parola o delle parole in cui consiste il marchio può non dar vita all'effetto confusorio ove quel termine o quei termini assumano una diversa valenza di senso anche perché inseriti in un contesto lessicale complessivamente coerente con questa diversa accezione di significato.
Se fin qui il ragionamento della Suprema Corte appare lineare, stupisce invece il passaggio dell’ordinanza in cui si lamenta il fatto che la sentenza impugnata non prenda in considerazione il tema della notorietà del segno «BOSS», che invece andava esaminato “dovendosi altresì indagare, e ciò compete alla Commissione dei Ricorsi, se l'assenza di novità del marchio «Il boss dei panini» debba essere affermata non solo avendo riguardo al rischio di confusione, ma anche al rischio di agganciamento di cui all'art. 12, lett. e), c.p.i. (e cioè in considerazione del fatto che il marchio successivo, senza giusto motivo, trarrebbe indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del segno anteriore o recherebbe pregiudizio agli stessi).
Ebbene, l’accertamento della notorietà del segno ex art. 12 comma 1 lett. e) CPI non è stata posta a base dell’opposizione ab initio.
Potremmo essere davanti ad un utilizzo improprio del termine “notorietà”, a discapito della più corretta - ma giuridicamente diversa - capacità distintiva accresciuta, effettivamente rivendicata da HUGO BOSS con la propria memoria introduttiva dell’opposizione del 2017, e quindi ad un ampliamento del thema decidendum da parte della Suprema Corte: la Commissione non ha correttamente tenuto conto dell’art. 12 comma 1 lett. e) CPI, dal momento che HUGO BOSS non ne ha mai rivendicato l’applicazione.
E’ così che si arriva a quello che sembra - per il momento - il capitolo finale della storia: a seguito del rinvio operato dalla Cassazione, il 25 febbraio 2025 la Commissione dei Ricorsi ha confermato il rigetto dell’opposizione. Nella decisione viene evidenziato come la sentenza della Commissione del 2021 (impugnata da Hugo Boss) aveva ritenuto debole il marchio dell’opponente dal momento che lo stesso era stato utilizzato “non come patronimico a completamento del nome di persona HUGO BOSS”, ma come semplice “prestito linguistico”, non passibile di essere oggetto di monopolio da parte di chicchessia. E in tale prospettiva giudicò - correttamente, aggiungiamo - le differenze presenti nel marchio dell’istante sufficienti a consentirne la registrabilità.
Pur rivalutato alla luce dei criteri enunciati dalla Corte di Cassazione, viene quindi deciso che il marchio contestato non risulta minimamente apparentabile al marchio patronimico di cui è titolare HUGO BOSS: “Proprio al contrario di quanto ritenuto nella decisione dell’Ufficio, infatti, la valutazione globale dei segni a confronto impone di escludere che il consumatore medio possa pensare che l’impresa i cui prodotti sono contraddistinti dal marchio di Paride Cocozza sia la stessa di quella i cui articoli sono solennemente individuati dalla sola parola BOSS, peraltro molto conosciuta nel settore dell’abbigliamento di un certo livello e quindi ragionevolmente percepita lontana dal mondo frugale dei consumatori di panini”.
Il marchio IL BOSS DEI PANINI, dopo quasi dieci anni, può quindi procedere verso la registrazione.
Oppure no?
Staremo a vedere se Hugo Boss si fermerà qui.
Avv. Silvia Mirenda
Bugnion S.p.a.