• Diritti d'autore - Software

27 agosto 2024

Luci e ombre delle licenze di software “open”. La licenza “BSD a 4 clausole”

di Stefano Leanza

Tra le licenze d’uso del software, quelle open source assumono un ruolo storico nella stessa evoluzione dei programmi per elaboratore.

Una recente sentenza del Tribunale di Milano (n. 7112/2023) consente di osservare le cosiddette “licenze BSD” e le clausole che le caratterizzano, pronunciandosi sulle conseguenze della mancata attuazione della “clausola pubblicitaria”.

Negli ultimi decenni, lo sviluppo dei software è stato plasmato in modo decisivo dalla natura più o meno “liberale” o restrittiva delle licenze d’uso degli stessi. Nel corso del tempo, sono emersi alcuni modelli di licenza di software, caratterizzati dal diverso grado di “permissività”: tra le più rilevanti, le licenze “BSD” (più aperte) e quelle “GPL”, più protezioniste.  

La “libera circolazione” dei programmi per elaboratore ha cominciato a guadagnare crescenti attenzioni (e sostenitori) soprattutto a partire dagli anni 80, nella fase in cui i software “uscivano” dalle università per entrare nel mondo delle imprese. Dalla condivisione della ricerca scientifica alla competizione sui mercati, in particolare attraverso gli istituti della proprietà industriale e intellettuale. E dunque, nel caso dei software, della tutela del diritto d’autore. Come noto, infatti, questi rientrano nel novero delle opere protette dalla Legge sul diritto d’autore (L.d.a.), venendo assimilati alle opere letterarie (art.1, c. 2, L.d.a.). Pertanto, coerentemente con la disciplina del copyright, anche nel caso del software a essere protetta è la forma espressiva del programma per elaboratore e non le funzioni alla base dello stesso L’art. 2, n. 8 della stessa legge, in particolare, afferma che i programmi per elaboratore vengono tutelati “in qualsiasi forma espressi, purché originali quale risultato di creazione intellettuale dell’autore”.  


Codice sorgente e codice oggetto 

Proprio la comprensione della forma del software risulta essenziale nella dialettica tra libertà di circolazione dei programmi e protezione degli asset aziendali (o in generale dell’esclusiva del titolare). In sostanza: “cosa” viene dato in licenza quando si tratta di licenze di software? Per coglierlo, bisogna distinguere tra i) codice sorgente e ii) codice oggetto. Per il primo si intende il codice con cui è scritto il programma in un linguaggio di programmazione, che ne consente l’eventuale elaborazione o sviluppo; il codice oggetto, invece, consiste nella traduzione del codice sorgente in linguaggio macchina, comprensibile solo all’elaboratore e generato automaticamente da un apposito programma detto compilatore. Il programmatore deve effettuare infatti una vera e propria traduzione: analizza un problema da risolvere, individua una soluzione, sceglie una forma di espressione (un insieme di istruzioni) che consentono al computer di risolvere il problema. 


La licenza di software di tipo open source 

La principale forma di circolazione del software, dunque, è rappresentata dalla licenza d’uso, attraverso la quale può essere concesso al licenziatario il mero diritto di utilizzo del programma. Certamente i contratti di licenza possono essere diversissimi tra loro, sia perché possono avere ad oggetto programmi personalizzati, ritagliati su misura per i clienti, o magari con specifiche limitazioni poste a tutela del licenziante, sia perché esistono, a monte, diversi “modelli” di licenze. Oltre alle classiche distinzioni che riguardano in generale i contratti di licenza (licenza esclusiva o non esclusiva), si possono distinguere nello specifico diverse tipologie di licenze di software (freeware, shareware, shrink-wrap…) fra le quali ci si concentrerà in particolare sull’open source. 

Il tratto essenziale dell’open source consiste per l’appunto nella sua natura di sistema “aperto”: il codice sorgente, per come definito sopra, è reso dal licenziatario accessibile, modificabile, ampliabile, facendo sì che chiunque possa contribuire alla sua evoluzione. L’esempio più celebre è costituito dalle “distribuzioni Linux”. 


La Licenza BSD a 4 clausole (e le sue sorelle) 

Tra le licenze “permissive”, è stata di recente oggetto di una interessante controversia, definita con sentenza da parte del Tribunale di Milano sezione imprese, la licenza “BSD”. Prima di riportare gli aspetti più rilevanti del contenzioso, vediamo di cosa si tratta. La sigla “BSD” sta per “Berkeley Software Distribution” e costituisce una licenza software di tipo open source particolarmente “liberale”, concedendo ai licenziatari la possibilità di utilizzare, modificare e financo distribuire il software con margini molto ampi. Più correttamente, la “licenza BSD” andrebbe inquadrata come una famiglia di licenze, specificamente definite poi dalle diverse clausole (generalmente tipizzate in “BSD 4 clausole” (o “FreeBSD”), 3 clausole (o “modificata”) e 2 clausole (“semplificata”). 

Le 4 clausole che vanno a caratterizzare la “FreeBSD” sono tipicamente costituite da: i) avviso di copyright (“le ridistribuzioni del codice sorgente devono mantenere il disclaimer di copyright”; ii) una clausola sulle redistribuzioni binarie che: “devono riprodurre la suddetta nota di copyright, il presente elenco di condizioni e la seguente clausola di esclusione della responsabilità nella documentazione”, garanzia di diritti di utilizzo gratuito e ridistribuzione; iii) una clausola “pubblicitaria ai sensi della quale ogni materiale pubblicitario che riguardi il software deve menzionare gli sviluppatori; iv) una ulteriore clausola ai sensi della quale il nome della licenziante non può essere utilizzato per promuovere prodotti derivati dal software senza autorizzazione. La clausola iii) non compare nelle tipiche licenze BSD “a 3 clausole”, che è stata adottata da molti progetti, incluso il sistema operativo OpenBSD, e da allora è diventata la versione della licenza più utilizzata, mentre la licenza BSD a 2 clausole semplifica ulteriormente le cose rimuovendo le clausole iii) e iv).


La controversia oggetto della sentenza n. 7112/2023 del Tribunale di Milano 

In estrema sintesi, il sig. AC, rappresentante pro tempore della società Gestionale Open s.r.l., aveva creato un software gestionale, denominato Gestionale Open (con acronimo GO), rilasciato con licenza Open Source BSD e messo a disposizione di tutti gli interessati al suo utilizzo. Se pure tale software era distribuito e scaricabile con modalità “open” (dunque liberamente e senza costi di licenza), la società provvedeva a concludere contratti di prestazione di servizi con i clienti diretti (PMI) o con soggetti che prestano servizi di assistenza a terzi per l’utilizzo di GO. Tali contratti avevano per oggetto, a seconda della tipologia e dell’esigenza del cliente, la manutenzione, l’aggiornamento alle nuove versioni, le personalizzazioni e, in generale, il servizio di assistenza (diretta, telefonica o di tele-assistenza). Le implementazioni del software, arricchito di nuove funzionalità, avvenivano in modalità non Open Source 

Le parti attrici, già in sede cautelare ante causam avevano dedotto a carico delle società convenute, da una parte, la violazione delle versioni del software non rilasciate in modalità open source, e dall’altra, la violazione del software GO Open Source per mancato rispetto delle condizioni di licenza BSD, nonché, in generale, un’attività imitativa e gravemente parassitaria svoltasi attraverso varie forme. Nella desicsione, assume particolare rilievo la licenza BSD “a 4 clausole”, e in particolare la clausola più caratterizzante: quella “pubblicitaria. 


La violazione della clausola “pubblicitaria” 

Il Tribunale di Milano ha, infatti, ritenuto, tra i diversi aspetti oggetto della controversia, che “nel materiale pubblicitario diffuso dalle convenute relativo alle caratteristiche o uso del software mancava l’attestazione riconducibile alla clausola 3 della licenza BSD (e cioè: “Questo prodotto include software sviluppati da [omissis])”. Al netto degli altri profili di illiceità, per il Tribunale di Milano “ciò determina dunque la sussistenza delle violazioni relative all’indebita diffusione di tale software”. Infatti, la mancata attuazione delle specifiche condizioni previste dalla licenza BSD comporta l’inapplicabilità della licenza che ne autorizzava l’uso e la diffusione – nonché la possibilità di modifica ed elaborazione di esso – con conseguente rilevanza del regime del diritto d’autore sul software previsto dagli artt. 64 bis e ss. della L.d.a.. E dunque dei diritti di esclusiva del titolare, a confermare il ruolo cruciale di tali licenze nel rapporto dialettico tra tutela del diritto d’autore e facilità di circolazione dei software. 
 


Avv. Stefano Leanza
Studio Previti Associazione Professionale